Buone Pratiche – Coltiv@ la Professione //www.agronomoforestale.eu agronomi e forestali Fri, 24 May 2024 12:26:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.3.5 Ribaltare il paradigma //www.agronomoforestale.eu/index.php/ribaltare-il-paradigma/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=ribaltare-il-paradigma //www.agronomoforestale.eu/index.php/ribaltare-il-paradigma/#respond Fri, 24 May 2024 10:25:52 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68537 A ridosso del mare, tra le colline coltivate, le pinete litoranee e la macchia mediterranea, i bianchi mantelli dei bovini maremmani tratteggiano il paesaggio agricolo. Siamo ad Alberese , nella Maremma toscana a sud di Grosseto, dove si trova una delle maggiori aziende in Europa condotte con il metodo dell’agricoltura biologica.

L’azienda agricola prima del parco
Il parco regionale della Maremma nasce nel 1975. Si estende per quasi 9.000 ettari tra il fiume Ombrone fino al paese di Talamone. Un ambiente variegato poiché, all’interno del suo perimetro, si trovano pinete, la costa scoscesa e le dune della spiaggia, le aree di wilderness alternate alle coltivazioni.
In realtà, la storia della produzione agricola nella Tenuta di Alberese nasce ben prima dell’istituzione del Parco, risalendo addirittura alla metà del XIX secolo, quando il Granduca di Toscana, Leopoldo di Lorena, acquistò e ampliò la Tenuta, investendo notevoli risorse finanziarie e umane per migliorare la produttività dell’azienda.

Il parco della Maremma. Foto di Alberto Pastorelli

Si è così creato un territorio in cui l’azione umana, dalle bonifiche alle scelte colturali, finanche alla selezione delle specie di allevamento si è intrecciata con la tutela della biodiversità e la cura degli ecosistemi. Qui, infatti, è visibile l’intervento umano, ideato a scopi produttivi, ma che ha lasciato un’eredità tale – in termini di biodiversità – da diventare la base fondativa per l’istituzione del parco.
Per esempio, i seicento ettari di pineta fra le colline dell’Uccellina e il fiume Ombrone non sono naturali, ma sono stati realizzati dai Lorena come una “piantagione di pini”. L’obiettivo del Granduca era chiaro: produrre pinoli e sfruttare i terreni vicino al mare, poco adatti all’agricoltura e all’epoca ricchi di acquitrini e paludi.

Un parco di origine antropica a vocazione agricola, quindi, che ha attraversato i decenni. Oggi, però, che rapporti ha l’azienda con il parco e le politiche di conservazione? Ne abbiamo parlato con Donatella Ciofani, agronoma e responsabile tecnica della Tenuta di Alberese, azienda di Ente Terre regionali.

Che tipo di azienda siete?
La nostra è un’azienda agro-zootecnica con una produzione diversificata e integrata: facciamo allevamento allo stato brado, abbiamo coltivazione cerealicole e foraggere, in massima parte dedicata all’alimentazione animale, abbiamo un oliveto secolare per la produzione di olio e produciamo anche vino. Poi c’è la componente dei servizi, avendo la gestione della banca del germoplasma che conserva le specie erbacee autoctone iscritte al repertorio della regione Toscana e le coltiva “in situ” e quella del seme dei riproduttori maremmani. Infine, alcuni casolari sono riservati all’ospitalità agrituristica.

Tori maremmani allo stato brado. Foto di Alberto Pastorelli

Che tipo di allevamento fate?
Qui si possono vedere le razze bovina maremmana ed equina maremmana in purezza, entrambe autoctone della Toscana, tutelate nell’ambito delle politiche di conservazione della agro-biodiversità e fortemente adattate al territorio.
Abbiamo oltre 400 bovini per 700 ettari di pascolo, 40 equini di razza maremmana in purezza e in selezione. Gli animali sono allevati in modo estensivo, con un basso indice di capi per ettaro, a ciclo chiuso vacca-vitello.

Rispettate particolari piani di conservazione per il mantenimento della biodiversità?
La nostra è un’azienda inserita in un parco regionale cui si pratica agricoltura biologica, ma è una risposta fuorviante: siamo l’esemplificazione di come possa essere ribaltato questo paradigma.
Ad Alberese non è l’azienda agricola che si è adeguata agli obiettivi di conservazione del parco, ma è la stessa vocazione agricola del territorio ad avere creato l’habitat che oggi si vuole proteggere. Qui l’azione umana, i differenti ecosistemi e la ricca biodiversità sono tessere di un puzzle perfettamente integrate in un unico sistema complesso.

L’accoglienza agrituristica quanto conta nel bilancio dell’azienda?
Anche se geograficamente siamo collocati in un’area a forte vocazione turistica, la nostra resta principalmente un’azienda agro-zootecnica in cui l’attività di accoglienza è complementare alle altre e marginale in valori assoluti.
Ci consente di mantenere attivi i casolari presenti nella tenuta e coprire le spese di manutenzione degli stabili.
Detto questo, per noi, la presenza turistica ha principalmente un valore legato al racconto dell’identità che stiamo preservando: qui si possono vedere figure come i butteri, si possono conoscere le tradizioni del territorio, si possono esplorare ambienti naturali modificati nei secoli dalla presenza umana.

Butteri nellla tenuta di Alberese. Foto di Alberto Pastorelli

Il vostro è un caso scuola, ma è replicabile altrove?
È un’azienda legata a doppio filo con il territorio, per cui non è un modello replicabile pedissequamente. Ma ogni azienda deve esprimere un legame con il territorio, diventandone presidio e mettendo in connessione gli aspetti di agro-biodiversità con la storia dei propri luoghi.
Un ottimo spunto, però, può essere preso dal nostro modello di allevamento zootecnico, per esempio selezionando razze antiche e autoctone. Queste, spesso, sono più resistenti e più adatte a sfruttare le aree marginali, offrendo risposte interessanti in termini economici.

L’allevamento estensivo riesce a essere remunerativo?
Negli anni abbiamo imparato a non trascurare alcun aspetto della filiera zootecnica, così da abbattere i costi superflui e ricavare un sostentamento dal nostro lavoro.
Innanzitutto, grazie all’allevamento brado è molto alto l’indice di benessere per l’animale. Ciò significa che, crescendo specie rustiche – frutto della selezione nei secoli – e ponendole in condizioni ottimali di vita, minimizziamo le spese di cura.
In secondo luogo, abbiamo accorciato la filiera avendo un macello aziendale e una rivendita, fornendo in loco solo poche realtà. Se da un lato non abbiamo i grandi numeri che interessano la grande distribuzione, dall’altro possiamo raccontare meglio il prodotto e troviamo un consumatore più consapevole e disposto a pagare un prodotto di qualità organolettica superiore.
Non solo. Il nostro cliente è consapevole del lavoro che facciamo ed è disposto a pagare un extra per la tutela dell’ambiente e del territorio, per la conservazione della cultura, per il rispetto etologico che questa forma di allevamento offre agli animali e per gli aspetti legati alla salute.

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Valutazione fitostatica degli alberi //www.agronomoforestale.eu/index.php/valutazione-fitostatica-degli-alberi/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=valutazione-fitostatica-degli-alberi //www.agronomoforestale.eu/index.php/valutazione-fitostatica-degli-alberi/#respond Fri, 16 Jun 2023 06:34:30 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68397

Edoardo Raccosta.
Laureato nel settembre del 2022 in Progettazione e gestione del verde urbano e del paesaggio, la sua tesi sperimentale ha avuto l’obiettivo di confrontare diversi approcci strumentali al fine di verificare le condizioni di stabilità e la propensione al cedimento di alberi a cui era stato interrato il colletto.

Il verde urbano fornisce molteplici benefici e servizi ecosistemici alle città e alla popolazione riducendo le emissioni di inquinanti antropici, favorendo l’aggregazione sociale, migliorando la salute mentale, incrementando il valore economico di beni immobili e aumentando la biodiversità presente nell’ecosistema urbano. Nell’attuale scenario di cambiamento climatico, gli effetti della presenza delle piante, per esempio sulla regolazione della temperatura, sull’intercettazione delle acque meteoriche (in particolare nel caso di “bombe d’acqua”) e sulla riduzione della velocità del vento, sono di grande importanza per la vita e il benessere delle persone che vivono negli agglomerati urbani. Tuttavia, si devono creare i presupposti giusti affinché le essenze vegetali presenti nelle nostre città esplichino le loro attività biologiche nel migliore dei modi.

39 alberi, un viale: il caso studio

Figura 1. Ricostruzione schematica dei possibili lavori di livellamento della sede stradale eseguiti sul Viale delle Piagge.

Il caso studio preso in esame è rappresentato dal Viale delle Piagge (Pisa), realizzato in seguito ai lavori di sistemazione del nuovo argine che aveva come scopo primario il contenimento dell’Arno nei periodi di piena. Sul viale sono presenti circa seicento esemplari arborei disposti in un doppio filare a prevalenza di tigli nostrani (Tilia platyphyllos), molti dei quali si ipotizza che siano stati messi a dimora subito dopo il completamento dei lavori dell’argine e quindi del viale, risalente alla seconda metà dell’800. Ad oggi, è uno dei luoghi più frequentati e amati, presentandosi indubbiamente come uno dei “polmoni verdi” della città che necessità però di una gestione attenta affinché questa infrastruttura non si trasformi in una minaccia.
Negli ultimi anni, si stanno verificando diversi casi di crolli dei tigli presenti sul viale, con annessi danni a edifici residenziali; le piante sono state interessate da rotture al colletto o ribaltamenti improvvisi. Osservando attentamente gli alberi a dimora e analizzando le dinamiche dei crolli si è notato l’assenza di contrafforti alla base del fusto (nel genere Tilia si manifestano in modo tipico e naturale, specialmente in piante mature) probabilmente imputabili a lavori di livellamento della sede stradale eseguiti negli scorsi decenni, che hanno apportato nuovo terreno (soprattutto nelle porzioni esterne del viale). Ciò ha determinato il progressivo interramento dei colletti e dei contrafforti delle piante a dimora con conseguenti ristagni idrici, elevata umidità e talvolta asfissia (Figura 1). Tutte condizioni ambientali favorevoli allo sviluppo di agenti patogeni fungini i quali determinano marciumi radicali estendendosi anche al colletto e compromettendo la stabilità delle essenze arboree.

Figura 2. Prova di trazione controllata in fase di svolgimento.

L’obiettivo di questa tesi di laurea è stato quello di condurre opportune indagini fitostatiche per valutare la stabilità di 39 alberi di un tratto del Viale delle Piagge situati nei filari esterni, molti dei quali non presentano contrafforti a causa, probabilmente, dei lavori di livellamento citati precedentemente. A questo scopo, si è reso necessario stabilire un protocollo standardizzato affinché tutte le analisi strumentali fossero condotte con modalità riproducibili nel medesimo sistema su ogni albero e con l’obiettivo di ottenere risultati uniformi e rappresentativi della problematica.

Un protocollo ad hoc
Il protocollo operativo è stato messo a punto dopo una serie di test adottando diversi approcci strumentali quali tomografo sonico, il dendropenetrometro e la prova di trazione controllata o “pulling test”; quest’ultimo è risultato essere il più idoneo per esaminare la tenuta radicale e l’elasticità delle fibre legnose. Il “pulling test” prevede l’applicazione di un carico controllato (simulazione di una raffica di vento) attraverso un paranco ed un cavo d’acciaio (Figura 2); per la registrazione dei dati utili a formulare una valutazione oggettiva ci si avvale di sensori estremamente sensibili installati sul fusto della pianta in esame (Figura 3). I dati raccolti in campo vengono rielaborati mediante un software dedicato all’interno del quale si inseriscono alcuni parametri come ad esempio l’altezza della pianta, il diametro del fusto, le dimensioni della chioma e la velocità del vento. Quest’ultimo dato, di fondamentale importanza poiché l’intero processo di analisi dei dati si basa su questo specifico carico, è stato ricavato tramite una ricerca storica degli eventi ventosi registrati nei pressi dell’area studio prelevati dalla stazione meteorologica della Regione Toscana.

La valutazione finale di ogni pianta viene fornita mediante l’attribuzione di una Classe di Propensione al Cedimento (CPC) proposte dalla Società Italiana di Arboricoltura che è stabilita, in questo caso, basandosi principalmente sui risultati ottenuti dalle prove di trazione. La classificazione di propensione al cedimento degli alberi è composta da 5 classi, ossia da A a D; una pianta in classe A non presenta al momento dell’indagine difetti significativi tali da ritenere che il fattore di sicurezza dell’albero si sia ridotto. Al contrario, una pianta in classe D ha ormai esaurito il suo fattore di sicurezza e pertanto è previsto l’abbattimento.
I risultati ottenuti hanno evidenziato che il 23% delle piante esaminate ricadono in una CPC estrema per cui è previsto l’abbattimento, il 23% (CPC = C) necessitano di un controllo visivo e strumentale periodico, con cadenza annuale. Infine, il restante 54% risulta avere un elevato grado di stabilità (CPC = A o B). Le piante ricadute nella classe estrema (CPC = D) sono state oggetto di ulteriore approfondimento diagnostico strumentale eseguendo una valutazione qualitativa del legno attraverso il tomografo sonico. Le tomografie effettuate all’apparato radicale e al colletto ove si riteneva necessario e possibile, hanno confermato l’esito ottenuto con le prove di trazione; scarsa capacità di ancoraggio delle radici a seguito di processi di degradazione dell’intero apparato e del colletto.

Figura 3. Sensori impiegati per svolgere la prova di trazione.

In molti casi, gli alberi nelle città sono costretti a vegetare in condizioni estreme, soggetti a continui stress termici, idrici, meccanici e molti altri. Il protocollo messo a punto per questo specifico caso si è rivelato essere attendibile, in grado di uniformare un giudizio finale complessivo e inquadrare al meglio la problematica descritta precedentemente. Questo protocollo operativo potrebbe essere adottato anche al di fuori del contesto specifico per cui è stato formulato; in particolar modo per verificare la stabilità degli alberi in seguito a importati lavori sulla sede stradale o limitrofi alla zolla radicale. Spesso, quando vengono eseguiti degli scavi, si danneggiano o in casi più gravi vengono recise intere porzioni dell’apparato radicale andando a stravolgere e compromettere l’intera stabilità di una pianta. Attraverso questo lavoro di tesi dove si sono sperimentati diversi approcci diagnostici, le prove di trazione si sono rivelate essere lo strumento diagnostico più idoneo per verificare problematiche all’apparato radicale, sia di natura meccanica (danni meccanici) che fitosanitaria (agenti patogeni fungini).

Sitografia e Bibliografia

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Usare meno pesticidi chimici //www.agronomoforestale.eu/index.php/usare-meno-pesticidi-chimici/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=usare-meno-pesticidi-chimici //www.agronomoforestale.eu/index.php/usare-meno-pesticidi-chimici/#respond Fri, 31 Mar 2023 08:16:45 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68330 L’uso consapevole e, per quanto possibile minimale, dei fitofarmaci e dei pesticidi per il controllo degli attacchi parassitari e delle malerbe è un obiettivo ogni giorno più comune e condiviso. Da anni, questo obiettivo è entrato nell’azione dell’ordine dei dottori agronomi e forestali, oltre che nelle direttive e nelle strategie europee.

Va aggiunto, però, che la tensione verso la maggiore sostenibilità ambientale delle pratiche agricole deve considerare anche che è necessario salvaguardare la sicurezza alimentare e garantire un reddito sostenibile agli agricoltori.

La piramide per gli interventi di lotta integrata ai parassiti e alle malerbe

Gli 8 principi

La strada maestra in questo settore è un insieme di soluzioni complementari, che prevede l’utilizzo di metodi naturali, innovazioni tecniche, progettazione agronomica qualificata e l’impiego di pesticidi chimici come ultima risorsa. Sapendo che questo mix dovrà essere adattato alle condizioni agricole e agro-climatiche locali/regionali.

La gestione integrata dei parassiti si fonda su 8 principi stabiliti a livello europeo e internazionale.

  1. L’applicazione di tecniche di prevenzione e monitoraggio degli attacchi parassitari e delle malerbe;
  2. L’utilizzo dei mezzi biologici di controllo dei parassiti;
  3. Il ricorso a pratiche di coltivazione appropriate;
  4. La lotta agli insetti dannosi tramite la confusione sessuale (uso di diffusori di feromoni);
  5. La previsione del verificarsi delle condizioni utili allo sviluppo dei parassiti, in modo da irrorare con fitofarmaci specifici solo in caso di effettivo pericolo di infezione e non ad intervalli fissi a scopo preventivo;
  6. L’uso di varietà colturali maggiormente resistenti;
  7. L’uso della rotazione colturale;
  8. L’uso di prodotti fitosanitari che presentino il minor rischio per la salute umana e l’ambiente tra quelli disponibili per lo stesso scopo, ottimizzandone la distribuzione, riducendo, quindi, la quantità di prodotto fitosanitario utilizzato.

Oltre a questi principi, che fanno da linea guida, bisogna aggiungere che la riduzione dell’uso dei pesticidi funziona meglio se combinata con altre buone pratiche: la conservazione del suolo, la riduzione dell’uso di fertilizzanti e la fornitura di servizi ecosistemici, come la conservazione degli impollinatori o il ripristino degli habitat naturali (ad esempio le siepi).

 

1300 buone pratiche

Recentemente la Commissione UE ha pubblicato una banca dati con circa 1.300 esempi di pratiche, tecniche e tecnologie e metodi disponibili per la gestione integrata dei parassiti, accompagnata da uno studio che ne valuta l’efficacia e le prospettive di diffusione.

Il database comprende anche 273 “linee guida specifiche per le colture” sviluppate dalle autorità nazionali e dagli enti pubblici degli Stati membri per implementare i requisiti di gestione integrata dei parassiti previsti dalla direttiva sull’uso sostenibile dei pesticidi (SUD).
Parallelamente a questa panoramica di esempi, uno studio ne valuta il potenziale per ridurre la dipendenza dai pesticidi chimici, il costo di attuazione, l’ efficacia complessiva, le barriere all’adozione e i fattori trainanti (pressione della società civile, quadro normativo incentivante,  ambiente economico favorevole).

La lotta ai parassiti – foto di pexels-pixabay

Il caso italiano

In Italia, le aziende ortofrutticole sono oltre 300.000, un terzo di tutte le aziende agricole nazionali, e gestiscono quasi 1 milione di ettari: l’8% dell’intera Superficie Agricola Utilizzata (SAU) italiana.

La specializzazione che registra l’estensione più significativa è quella frutticola con 377.470 ettari (di cui il 43,4% ricade in Emilia Romagna, Campania e Sicilia), seguita dalle ortive in piena aria (che caratterizzano in particolare Puglia ed Emilia Romagna) e poi dalla produzione di legumi, agrumi e ortive protette che, in molti casi, presentano un’elevata concentrazione territoriale (si pensi al ruolo degli agrumi in Sicilia e Calabria).

Quello che più interessa in questa discussione è che le colture ortofrutticole sono quelle che maggiormente necessitano di essere difese con il ricorso a prodotti fitosanitari.

Risulta chiaro, quindi, perché il caso italiano analizzato riguarda proprio la coltura in frutteto, con un progetto che analizza l’impatto e i costi dell’uso di reti multifunzionali per il controllo di insetti particolarmente nocivi per i frutteti, come la tignola e la cimice asiatica.

 

La strategia europea

La strategia Farm to Fork stabilisce due obiettivi da raggiungere entro il 2030 in termini di riduzione dei pesticidi: una riduzione del 50% dell’uso e del rischio dei pesticidi chimici e altrettanto nell’uso di pesticidi più pericolosi.

Nel periodo 2003-2020, l’Italia ha ridotto del 35% l’uso dei prodotti fitosanitari, proprio grazie all’applicazione dei principi della difesa integrata che costituiscono la base della produzione integrata.

La Direttiva sull’uso sostenibile dei pesticidi (SUD) stabilisce le condizioni che le autorità nazionali devono stabilire per garantire l’uso sostenibile dei pesticidi da parte degli agricoltori e di altri utilizzatori professionali di pesticidi.

Sullo sfondo della strategia Farm to Fork e per rafforzare l’attuazione degli obiettivi della SUD, nel giugno 2022 la Commissione ha adottato una proposta di regolamento che sostituisca la SUD. La proposta fissa gli obiettivi dell’UE per la riduzione dei pesticidi e prevede obiettivi nazionali, nonché requisiti più specifici a livello di utilizzatori, anche per la difesa integrata sotto forma di “norme specifiche per le colture”.

 

La nuova PAC prevede diversi strumenti a disposizione degli agricoltori per ridurre l’uso dei pesticidi.

Gli eco-schemi del primo pilastro della PAC prevedono un budget minimo di 48,5 miliardi di euro per le pratiche ambientali e climatiche, compresa la riduzione dei pesticidi e l’agricoltura biologica.

Gli impegni di gestione nell’ambito del secondo pilastro della PAC (sviluppo rurale) prevedono un bilancio comunitario minimo di 21,14 miliardi di euro (integrato dal cofinanziamento nazionale). Il secondo pilastro della PAC può anche sostenere gli investimenti nell’agricoltura di precisione, che contribuiscono anche alla riduzione dei pesticidi. Le misure di mercato della PAC in settori come l’ortofrutta o il vino possono finanziare azioni collettive per la promozione di pratiche come la gestione integrata dei parassiti o la produzione integrata, nonché la produzione biologica.
Nell’ambito dei servizi di consulenza aziendale, gli Stati membri devono fornire consulenza agli agricoltori su una serie di questioni, tra cui l’uso sostenibile dei pesticidi. La creazione e l’utilizzo dei servizi di consulenza possono essere finanziati anche dal secondo pilastro della PAC, ad esempio attraverso il partenariato europeo per l’innovazione (EIP-AGRI).

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Conservazione dinamica del paesaggio alpino //www.agronomoforestale.eu/index.php/conservazione-dinamica-del-paesaggio-alpino/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=conservazione-dinamica-del-paesaggio-alpino //www.agronomoforestale.eu/index.php/conservazione-dinamica-del-paesaggio-alpino/#respond Fri, 17 Feb 2023 11:16:08 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68283 Come si attua la salvaguardia, la gestione e la valorizzazione del paesaggio nell’area alpina? Un esempio, anzi diversi esempi si possono trovare tra i premi e le menzioni del Premio triennale Giulio Andreolli Fare paesaggio.

Cos’è il premio
Il premio nasce per celebrare le opere, progetti e iniziative realizzati nel territorio alpino e indirizzati alla salvaguardia, alla gestione e alla valorizzazione del paesaggio nell’area alpina.
La Giuria, presieduta dal paesaggista Andreas Kipar e composta da esperti di livello internazionale, ha valutato gli interventi e le iniziative con specifici riferimenti all’innovazione e alla sostenibilità, alla partecipazione e alla sensibilizzazione.

Il dinamismo del paesaggio

Sabrina Diamanti, presidente CONAF

D: Presidente Diamanti, come mai l’ordine degli agronomi e forestali è coinvolto in questo premio dedicato al paesaggio?
Sabrina Diamanti, Presidente CONAF
: Nulla di strano, anzi. Il premio esibisce i valori scritti nella Carta europeo dal paesaggio e nell’articolo 9 della Costituzione, che è incardinato nel nostro codice deontologico. Da sempre agronomi e forestali si occupano di cultura del paesaggio, della sua valorizzazione, della sua gestione

 

D: Siamo giunti alla terza edizione. Cosa ha trovato di nuovo?
R:
Negli anni, il premio ha saputo evolvere, comprendendo che il paesaggio cambia e lo dobbiamo interpretare come un’entità dinamica che va curata, valorizzata e gestita, in particolare per le componenti più naturali.
Un’evoluzione insita nel nome stesso del premio: “Fare paesaggio”. È un concetto che racchiude in sé il fatto che il bene paesaggistico è la risultanza di una costruzione e di un’interazione con l’uomo attraverso i secoli.
Un intervento dinamico, ma che ha saputo coniugare le esigenze di vita con la capacità di conservare i beni, applicando i principi di sostenibilità anche prima che questi venissero esplicitati.

 

D: Cosa significa curare il paesaggio nel XXI secolo?
R:
In questi e nei prossimi anni, i cambiamenti climatici ci obbligheranno a fare i conti con una repentina evoluzione degli scenari, sia per quanto riguarda la messa in sicurezza degli edifici e dei manufatti che per le modifiche alle nicchie ecologiche.
Per questo ho molto apprezzato che il filo conduttore di questo premio sia stato la multidisciplinarietà dei gruppi di progettazione. Si tratta di un approccio moderno, in cui le diverse specializzazioni concorrono verso l’obiettivo comune della sostenibilità e della valorizzazione del paesaggio alpino.”

 

D: Tra cui anche quelle dei dottori agronomi e dottori forestali
R:
Non mi stupisce vedere la presenza di tanti colleghi nei team dei progetti premiati e in quelli partecipanti, inseriti armonicamente tra architetti e paesaggisti per contribuire con le nostre competenze alla salvaguardia di quell’immenso bene che sono le Alpi.
Per fare ottimi progetti servono specializzazioni e competenze sempre aggiornate, ma nel contempo è necessario coniugare i diversi punti di vista per essere capaci di gestire la complessità.
I progetti candidati in questo premio ne sono la dimostrazione, perché funzionano quando hanno saputo mettere a fattor comune le esigenze umane con quelle della natura, mantenendo l’armonia in uno sguardo di insieme.

 

Agronomi e forestali premiati
Il primo posto nella sezione “cultura, educazione e partecipazione” è stato assegnato al progetto “Il Castello di Pergine bene di comunità”, il cui presidente della Fondazione CastelPergine Onlus è il collega Carmelo Anderle, dottore forestale.

 

Progetto “Il Castello di Pergine bene di comunità”

IL PROGETTO
La Fondazione di partecipazione CastelPergine Onlus ha acquisito a fine 2018 il Castello di Pergine in Trentino (I) tramite un’iniziativa comunitaria di attivazione e coinvolgimento di istituzioni, istituti di credito, enti privati, associazioni e alla raccolta di sottoscrizioni (ad oggi 885).
Si tratta di una proprietà che comprende anche le sue pertinenze, due ristoranti e uno storico albergo dislocato in tre torri e nella cosiddetta Ala clesiana: circa 3.800 mq coperti e 17 ettari di proprietà boschive e prative. Un bene dalla presenza fortemente iconica nel paesaggio, di grande rilevanza storico-artistica, centro d’arte e cultura, turismo sostenibile, occupazione, bandiera verde di Legambiente 2022.
La vita che si è dipanata a Castello dopo l’acquisizione – tra lavoro, mostre d’arte, incontri, spettacoli, occasioni di studio e conoscenza – ha motivato aggregazione, costruito nuove relazioni, consolidato e generato collaborazioni. Numerosi sono i personaggi di spicco del panorama nazionale e internazionale che hanno fatto visita e sosta a castello e tanti i visitatori coinvolti nel contesto di diverse iniziative già avviate a partire dal 2019. L’acquisizione partecipata del Castello nel 2018 ha rappresentato un elemento dirompente nella gestione del patrimonio storico-artistico, a partire dalla sua salvaguardia e conservazione. Questo progetto sta contaminando altre realtà a livello nazionale e la Fondazione condivide in modo innovativo il know-how e il progetto di valorizzazione in una logica di rete di esperienze. A partire dalla data di acquisizione del bene, oltre alle numerose iniziative di carattere culturale sono stati realizzati e programmati numerosi interventi di restauro dei beni architettonici e storico artistici che qualificano il complesso monumentale.

 

Menzioni speciale allo studio Amp Architecture & Landscape, in cui lavora il dottore forestale Claudio Maurina, per il progetto di riqualificazione ambientale “Parco del lago Fontana

 

progetto di riqualificazione ambientale “Parco del lago Fontana”

IL PROGETTO
Valorizzazione paesaggistica e qualificazione ecologica di un laghetto alla base delle pendici boscate che delimitano la valle di Non in Trentino (I).
L’intervento intende migliorare la fruibilità del lago Fontana e agisce sull’assetto morfologico e idraulico del bacino, sul quadro naturalistico e sugli elementi destinati alla fruizione del sito. Lo spostamento dell’emissario e l’inserimento di varie specie vegetali migliorano la dinamica lacustre, il percorso panoramico attorno al lago si adatta alla topografia delle sponde, riducendo l’impatto ambientale, mentre i sentieri sensoriali collegano radialmente il lago al bosco. Gli elementi identificativi del luogo (emissari, dossi, punti panoramici etc.) sono messi a sistema attraverso due tipologie di percorso: il percorso panoramico e i sentieri sensoriali. Ciò integra il sito con le comunità che già lo frequentano, grazie alla sua vocazione di crocevia e luogo di incontro tra percorsi di natura e cultura. Il fondale del laghetto è stato riportato ad una profondità adeguata ed è stato spostato l’emissario nel versante sud-est e sistemate le sezioni di bacino al fine di creare una appropriata fascia ecotonale. Sono state messe a dimora specie lacustri e vegetali che stabilizzano l’ecosistema del lago e bilanciano la presenza di specie già presenti. Il percorso offre pendenze quasi sempre costanti e mai superiori all’8% per garantire la fruibilità a diversi tipi di utenza. Incontri e momenti di condivisione con i diversi stakeholders del territorio hanno caratterizzato la genesi e lo sviluppo dell’iter progettuale, scanditi da numerosi incontri con la municipalità nelle sue componenti tecniche, sociali e culturali.

 

Menzioni di qualità assegnata al progetto “Dopo Vaia, la rinascita di un parco” (SOVA-Parco di Levico), il cui curatore è il dottore forestale Maurizio Mezzanotte, dirigente del servizio SOVA.

progetto “Dopo Vaia, la rinascita di un parco” (SOVA-Parco di Levico),

IL PROGETTO
Creato agli inizi del ‘900, il Parco delle Terme di Levico in Trentino (I) è il più importante parco storico della provincia. Nel 2018 il parco è stato colpito pesantemente dalla tempesta Vaia che ha abbattuto più di 200 alberi monumentali. Per riqualificare il parco è stato avviato un percorso di restauro accompagnato da iniziative culturali finalizzate a coinvolgere la collettività nel lungo processo di rinascita. La popolazione ha risposto massicciamente, contribuendo con donazioni e offerte provenienti da tutta Italia e dall’estero che hanno permesso il reimpianto degli alberi seguendo uno specifico progetto paesaggistico. In tale contesto di iniziative è stato bandito un concorso rivolto a progettisti e artisti per raccogliere idee e ipotesi progettuali sul tema “resilienza”. L’invito è stato raccolto da 35 candidati provenienti da tutta Italia e il progetto vincitore è stato realizzato. L’attività di rinascita del parco è proseguita attuando un intenso programma di iniziative che rappresentano una realtà ormai consolidata nel panorama culturale trentino.

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Telerilevamento applicato alla stima dei danni in agricoltura //www.agronomoforestale.eu/index.php/telerilevamento-applicato-alla-stima-dei-danni-in-agricoltura/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=telerilevamento-applicato-alla-stima-dei-danni-in-agricoltura //www.agronomoforestale.eu/index.php/telerilevamento-applicato-alla-stima-dei-danni-in-agricoltura/#respond Tue, 30 Aug 2022 10:03:40 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68197 È possibile utilizzare i dati satellitari pubblici per coadiuvare (o addirittura surrogare) l’attività peritale nel campo assicurativo agricolo?
Da questa apparentemente semplice domanda nasce un’idea che oggi si è trasformata in tesi. L’ispirazione nasce dopo anni di attività nel settore assicurativo, al fine di contenere o risolvere le difficoltà tecniche (e non) del perito estimatore: corretto campionamento, oggettività della stima, attendibilità della stima, gestione degli errori e rapporto con l’assicurato.

Strumenti innovativi al servizio del perito
I professionisti dell’estimo necessitano di strumenti innovativi per affrontare gli effetti del cambiamento climatico, la modifica della gestione e della genetica delle colture e, infine, per rimanere al passo con i tempi.
Per esempio, nel mercato esistono proposte di nuove metodologie basate sulla stima di parametri biofisici delle colture (altezza, massa, contenuto di clorofilla, etc.) attraverso l’elaborazione della radiazione elettromagnetica emessa dalla vegetazione con il supporto piattaforme come quad, droni e satelliti.

L’occhio del satellite
In un contesto che sta cambiando rapidamente si è inserito questo progetto di ricerca, in cui il dato satellitare rappresenta l’ossatura di almeno tre anni di lavoro (sotto, un’immagine riassuntiva delle fasi del lavoro).
La scelta del satellite, svantaggiosa per alcune caratteristiche come la risoluzione spaziale e temporale o la presenza di copertura nuvolosa, offre innegabili vantaggi dal punto dell’economicità e dell’accessibilità del dato e dall’enorme superficie coperta a cadenze regolari (mediamente 5-6 giorni).

Dallo spettro elettromagnetico agli indici vegetativi
La flotta Sentinel-2 del progetto Copernicus della ESA è formata da due satelliti che, da anni, registrano immagini della superficie terrestre in 13 bande dello spettro elettromagnetico.
L’intensità di queste bande può essere utilizzata nella formazione di Indici Vegetativi (o V.I.), ossia rapporti delle intensità delle diverse bande posti all’interno di equazioni al fine di ottenere un’informazione normalizzata tra il valore 0 e il valore 1.
Negli ultimi 50 anni sono stati estrapolati centinaia di diversi Indici Vegetativi, per esempio rapporti di bande sensibili alla presenza di corpi d’acqua o alla scarsità idrica o ancora alla quantità di massa vegetativa insistente su un’area.
Nel mio caso, sono stati utilizzati gli indici NDVI (Normalized Difference V.I.), ARVI (Atmospherically Resistant V.I.), MCARI (Modified Chlorophyll Absorption in Reflectance I.), SAVI (Soil Adjusted V.I.), MSAVI (Modified Soil Adjusted V.I.), MSAVI2 (Modified Soil Adjusted 2 V.I.) per la regione lombarda. Una sperimentazione all’inizio volutamente ampia, con più indici, per arrivare alla definizione dell’indice più performante per la rilevazione e la quantificazione del danno produttivo sulla coltura maidicola.

La selezione
Le 74 scene Sentinel-2 scattate nel periodo aprile 2018-settembre 2018, cernite per la copertura nuvolosa o per la presenza di errori o artefatti, sono state la base su cui lavorare.
Dopo le immagini satellitari serviva un campione consistente di dati assicurativi con la posizione degli appezzamenti, la percentuale di danno stabilita dai periti, lo stadio fenologico nel momento dell’avversità.

 

L’intera base dati insisteva sulla provincia bresciana per un totale di circa 125 appezzamenti della dimensione media di circa 4 ettari ciascuno.
Tutti gli appezzamenti erano stati oggetto di un evento atmosferico avverso (grandine, vento forte, altro) e la percentuale di danno assegnata dai periti variava dallo 0 al 30%. (sotto a destra, danno da vento; sotto a sinistra, danno da grandine)

Sopra o sotto la franchigia
Questi valori di danno non sono casuali: per come funziona la maggior parte delle assicurazioni, i danni attorno alla franchigia sono cruciali nella determinazione dei premi e dei risarcimenti assicurativi, poiché sono i danni più frequenti, specialmente per la coltura maidicola.
L’ipotesi iniziale della tesi era quella di validare uno strumento e un metodo in grado di discernere danni al di sopra della franchigia, risarcibili per la porzione superiore la franchigia, e quelli al di sotto, non risarcibili del tutto. Uno strumento che permetterebbe il risparmio di tempo destinato alle attività peritali per convogliare le risorse umane verso i casi di emergenza.

I risultati
L’intera base dati è stata digitalizzata, georeferenziata e caricata su software GIS per l’elaborazione finale, che ha collegato la base dati satellitare con quella peritale.
Con la tecnica della change detection, tramite il confronto delle immagini satellitari prima e dopo l’evento dannoso, si sono ottenuti alcuni importanti risultati.

  • È possibile classificare ottimamente il territorio, basandosi sull’evoluzione di una serie storica di indici vegetativi e sulla presenza di campioni di colture validate; l’accuratezza massima è stata dell’83% per la classificazione infracolturale del mais.
  • Il migliore indice vegetativo per discernere i danni sotto franchigia dai danni superiori alla stessa è l’indice MSAVI, con overall accuracy del 73,3%;
  • Non è possibile quantificare con precisione il danno utilizzando un V.I., ma l’andamento del V.I. è fortemente correlato a diversi fattori ambientali, tra cui il danno. Di conseguenza un calo repentino e drastico dell’indice corrisponde ad una tipologia di danno grave, mentre un calo si repentino ma contenuto è indice di danni più lievi.

Esempio di evoluzione degli indici vegetativi in campo danneggiato, a sinistra, e campo non danneggiato, a destra

A chi serve?
Molti gli stakeholder che trarrebbero beneficio da questo tipo di innovazione.

  • Le compagnie assicurative, innanzitutto, per meglio organizzare le proprie risorse umane (i periti) nella rilevazione dei danni.
  • I consorzi di difesa, in seconda battuta, per essere capaci di valutare il danno a livello comprensoriale e intervenire al fianco degli agricoltori.
  • Gli agricoltori, che avrebbero uno strumento che li aiuta a comprendere come un evento atmosferico possa danneggiare l’azienda così da poter ipotizzare delle strategie di adattamento di medio periodo.
  • Gli enti pubblici, sempre alla ricerca di strumenti di controllo e di dati che verifichino le dichiarazioni.

I punti di forza della metodologia proposta sono:

  1. Rapidità di analisi di un comprensorio;
  2. Economicità della stima preliminare;
  3. Ottima classificazione delle colture e dello stato del vigore prima e dopo l’evento atmosferico;
  4. Possibilità di utilizzo del medesimo strumento per più utenti;
  5. Oggettività assoluta del dato;
  6. Semplicità di integrazione con altre banche dati satellitari o peritali;
  7. Supporto alle squadre peritali nell’identificazione di aree simili di danno all’interno del medesimo appezzamento.

Le problematiche principali che limitano la tecnica sono:

  • Interferenze meteo: la nuvolosità limita fortemente il recupero di dati validi;
  • Specificità del metodo: la tecnica è valida unicamente sulle monocolture;
  • Incognite di variabilità: il metodo non ha previsto la rilevazione di numerosi dati che aumentano la variabilità errore come stato idrico, nutrizionale e gestionale delle singole colture;
  • Errori nel metodo: il metodo è basato sulle stime ottenute dai periti, che potrebbero essere falsate.

La ricerca è ancora agli inizi e occorre ancora molto lavoro per raffinare la metodologia proposta e renderla applicabile su vasta scala.
Si sono già ipotizzate, però, alcune linee di studio che potrebbero affinare lo strumento:

  • Comprendere le variabili genetica, gestione e suolo all’interno della sperimentazione,
  • Estendere l’analisi a ulteriori flotte satellitari,
  • Sperimentare su diverse monocolture,
  • Assistere in prima persona al rilevamento del danno.

Il ruolo dell’agronomo
In conclusione, sottolineo come la figura del dottore agronomo non sia meramente una sterile presenza tecnica che applica scoperte effettuate da altre professioni e metodi sviluppati nel recente e remoto passato, piuttosto una mente critica e indipendente, un collegamento essenziale tra mondo accademico e mondo economico, una figura di riferimento di primo piano per numerosi ambiti come quello agricolo, quello ornamentale, quello ecologico e quello forestale.

Il mio lavoro di tesi è interamente dedicato alla nostra professione: possa fornire da spunto, specialmente per i più giovani, per ricordare che l’iscrizione alla professione non è un traguardo quanto piuttosto un ottimo punto di partenza per approfondire temi ancora non dibattuti, per sperimentare nuove tecniche e tecnologie e, infine, per effettuare scoperte utili all’intera comunità, sia su scala locale sia globale.

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Cambiamenti climatici e terre d’uso civico: esperienze forestali in Calabria //www.agronomoforestale.eu/index.php/cambiamenti-climatici-e-terre-duso-civico-esperienze-forestali-in-calabria/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=cambiamenti-climatici-e-terre-duso-civico-esperienze-forestali-in-calabria //www.agronomoforestale.eu/index.php/cambiamenti-climatici-e-terre-duso-civico-esperienze-forestali-in-calabria/#respond Thu, 05 May 2022 15:32:00 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68174 Roberto Sabatino,PhD, Dott. Agronomo e Forestale

Tutti gli interventi selvicolturali sono stati sempre finalizzati al miglioramento del sistema foresta e nel creare le condizioni più vicine alla situazione climax, ovvero all’esaltazione di sistemi biologici complessi tra di essi strettamente connessi.

Una buona gestione del bosco e delle foreste sotto il profilo ambientale, ecologico e biologico comporta la creazione, il mantenimento e miglioramento di sistemi biologici complessi.

È noto che tutti gli interventi in foresta devono essere cauti, continui e capillari perché il selvicoltore deve costantemente confrontarsi e tener conto di situazioni ambientali, ecologiche e biologiche in continua evoluzione, accelerate, ancor più dai repentini cambiamenti climatici degli ultimi anni.

Inoltre, un’attenta e cauta gestione forestale comporta una notevole diminuzione (quasi un annullamento totale) del dissesto idrogeologico, come a tutti è noto.

5 punti chiave
Alla luce delle modificazioni climatiche in atto è necessario che:

1) Gli interventi di pianificazione e gestione forestale siano indirizzati alla massima resilienza;

2) Gli interventi selvicolturali tradizionali siano rivolti a una più marcata salvaguardia del bosco;

3) Sia attuata, dove possibile, la conversione dei boschi cedui in bosco d’alto fusto;

4) Sia favorito l’insediamento spontaneo di specie minori, come l’insediamento di alberi di acero o di ontano o di leccio nei castagneti

5) I rimboschimenti o gli imboschimenti siano attuati utilizzando specie resistenti a eventi estremi: alberi con apparato radicale fittonante e molto approfondito, resistente a forti tempeste di vento o essenze più rustiche e frugali meno esigenti, adattabili ai terreni poco profondi e poco dotati in elementi nutritivi.

 

Selvicoltura di resilienza

Sinteticamente, la selvicoltura tradizionale deve essere trasformata in selvicoltura di resilienza, adattamento e resistenza a ciò che sta avvenendo.

In Calabria, il Comune di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (CZ), in assenza di un’università di agraria o di un’associazione di cittadini volta alla tutela delle terre d’uso civico, amministrava e ancora gestisce circa 80 ettari di bosco ceduo di leccio che non veniva utilizzato da almeno tre turni.

Circa vent’anni fa, la giunta municipale, conferendo incarico professionale allo scrivente, ha scelto di far individuare e di far censire i terreni gravati da usi civici e di effettuare una serie di interventi di taglio di conversione all’alto fusto al fine di migliorare la stazione (località Falde dell’Inferno), reinvestendo i ricavi del taglio in opere di pubblica utilità.

Il principio ispiratore di tali interventi era basato sull’interpretazione della norma: se i terreni di uso civico sono beni ambientali e paesaggistici – che vanno tutelati, conservati e possibilmente migliorati – ne consegue che un intervento di miglioramento è attuabile.

In questo caso, quindi, l’intervento di miglioramento consistette in una serie di tagli di conversione del bosco ceduo di leccio in alto fusto, poiché è noto scientificamente che un intervento di conversione di un bosco ceduo in alto fusto è un miglioramento del bosco e della stazione dove esso è ubicato.

Tali interventi, alla luce delle prime avvisaglie di mutamenti climatici, periodi di estrema siccità caratterizzati da improvvisi fenomeni piovosi di forte intensità e breve durata, furono valutati e concordati in situ, sia sui criteri, che nei tempi e modalità, con gli Ufficiali del Ripartimento del Corpo Forestale dello Stato di Catanzaro, e ad oggi, hanno permesso il miglioramento del bosco ceduo di leccio senza addurre a questo danni.

Tali interventi di miglioramento della stazione e di adattamento ai cambiamenti climatici, sempre più palesi nel corso degli anni a partire dal primo taglio, sono stati ultimati nell’anno 2005.

Inoltre, tale esperienza professionale, fu tradotta in tesi di Laurea magistrale in estimo forestale, discussa il 13.02.2007 presso la Facoltà di Agraria dell’Univeristà Mediterranea di Reggio Calabria, dal titolo ”Determinazione del più probabile valore di trasformazione di un bosco ceduo di leccio gravato da usi civici nel Comune di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (CZ)”.

Alla luce di quanto esposto, gli interventi di pianificazione forestale possono contribuire alla conservazione dei boschi di uso civico e alla resilienza ai cambiamenti climatici.

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L’agronomo 4.0 e la digitalizzazione dell’impresa agroalimentare al tempo del COVID-19 //www.agronomoforestale.eu/index.php/lagronomo-4-0-e-la-digitalizzazione-dellimpresa-agroalimentare-al-tempo-del-covid-19/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=lagronomo-4-0-e-la-digitalizzazione-dellimpresa-agroalimentare-al-tempo-del-covid-19 //www.agronomoforestale.eu/index.php/lagronomo-4-0-e-la-digitalizzazione-dellimpresa-agroalimentare-al-tempo-del-covid-19/#respond Tue, 09 Jun 2020 14:50:10 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=67768 di Calogero Romano

Come possono le PMI agroalimentari italiane difendere le proprie posizioni commerciali sui mercati nazionali e internazionali? Quali approcci bisogna applicare per contenere gli effetti recessivi del COVID-19 sulle imprese agroalimentari?

Una possibile risposta si può trovare nell’esperienza maturata nell’ambito del progetto “PILOT”, che prevede l’applicazione di sistemi di business intelligence1 a un’aggregazione informale di imprese agricole e di trasformazione2 che condividono i valori del rispetto dell’ambiente e realizzano prodotti complementari, biologici (quindi sostenibili) e tracciabili.

Le difficoltà di proporsi al mercato
La commercializzazione del prodotto è una delle problematiche che attanagliano da sempre le PMI del settore agroalimentare.
La vendita Business to Consumers-B2C (Azienda –> Consumatore finale), quale il mercato del contadino, risolve solo in parte i problemi di commercializzazione dei prodotti, a meno che la produzione dell’impresa agroalimentare non sia particolarmente ridotta.
In particolare nelle zone rurali, lì dove il mercato locale è debole e la popolazione in riduzione, per sostenere i processi di creazione del valore è quanto meno auspicabile che la piccola azienda si rivolga ai canali di distribuzione (mercato Business to Business-B2B = Azienda –>Azienda/Rivenditore).
Quanto sopra descritto non è il frutto di una valutazione soggettiva e parziale, riconducibile alle microrealtà imprenditoriali delle zone rurali, ma è un fenomeno di portata ben più ampia che caratterizza le imprese del comparto a livello europeo.
Infatti, se consideriamo i risultati di un’indagine statistica condotta su 468 imprese del settore agroalimentare in Austria, Belgio, Francia, Grecia, Italia, Norvegia, Repubblica Ceca, Spagna, Turchia e Ungheria , emerge un quadro del comparto agroalimentare poco rassicurante: le PMI europee denunciano, in generale, gravi carenze sul marketing operativo e in particolare sull’organizzazione dei canali commerciali, sulla programmazione delle azioni promozionali e una scarsa capacità di agire come price maker (Planning and Implementation nel grafico). A queste carenze, si aggiunge anche l’inadeguatezza dei controlli dei risultati raggiunti (Control and Evaluation), attività divenuta ormai obbligatoria in Italia per tutte le imprese, in seguito al D. Lgs 14/2019 (Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza).

Questo potrebbe spiegare il motivo per cui le imprese agricole hanno maggiori difficoltà nel raggiungere un equilibrio di natura economica: in Italia il 29,7% delle imprese agricole, quasi 1 azienda agricola su 3, è in perdita rispetto al dato medio che si attesta al 23,6%..

Trasformazione digitale
Il progetto PILOT intende dare una soluzione ai problemi citati e propone di organizzare le PMI attorno a una figura ancora più evoluta dell’agronomo e del forestale: l’agronomo 4.0.
In questa struttura organizzativa ibrida, le conoscenze, le intuizioni e le relazioni dell’imprenditore agroalimentare vengono tradotte, con l’ausilio dell’agronomo e del forestale, in produzioni sostenibili (non solo a livello ambientale ma anche sotto i profili economico-finanziario) e quindi in programmi, procedure e strumentazioni digitali innovative più efficaci ed efficienti3.
Agronomo 4.0 è una figura professionale in grado di assistere l’impresa non solo nella “progettazione di sistemi di produzione di cibo produttivi, sostenibili, resilienti e trasparenti attraverso l’agricoltura di precisione e o lo sviluppo tecnologico”, ma anche in funzione della loro “commerciabilità” e di una loro sostenibilità economico-finanziaria, condizioni senza le quali non può esistere nessuna impresa.
Le aziende coinvolte in PILOT producono cibi salubri, sostenibili, resilienti e trasparenti e sono state digitalizzate per implementare una politica commerciale che consente loro di dialogare con il mercato nazionale e internazionale, sostenendo i processi di commercializzazione nel rispetto delle condizioni di equilibrio economico e finanziario, così come richiesto dall’art. 375 del D. Lgs 14/2019 (Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza)4.
Siamo nell’attuale fase di “trasformazione digitale” delle imprese (De Luca, 2017), periodo in cui gli imprenditori, il management e i responsabili marketing e commerciali utilizzano informazioni ottenute in seguito alle attività di business intelligence5.
Il digitale favorisce la crescita d’impresa, la tecnologia mette a disposizione strumenti di business intelligence, ossia strumenti di gestione in grado di raccogliere, manipolare e analizzare grandi quantità di dati in maniera del tutto istantanea.
Un uso appropriato della tecnologia permette di ottenere vantaggi competitivi che non derivano esclusivamente dal tipo di prodotto o servizio che viene offerto; il processo di digitalizzazione, soprattutto delle piccole imprese, può portare a un cambiamento del tutto positivo del modello di business.
Inoltre, l’utilizzo di strumenti tecnologicamente avanzati, permette una gestione efficace delle vendite, della clientela e di conseguenza, un aumento del profitto aziendale; il digitale, è un valido sostegno per lo sviluppo delle piccole e medie imprese.
Nello specifico, il dottore agronomo e forestale che riesce a domare le nuove tecnologie informatiche, potrà conquistare nuovi spazi di mercato assistendo l’azienda agricola oltre che dal punto di vista agronomico anche dal punto di vista commerciale e strategico, accompagnandola nelle scelte di marketing mix (prodotto, prezzo, distribuzione e promozione) e nelle trattative sia a livello nazionale che internazionale, cosa che con il digitale si può sviluppare direttamente anche dallo studio del professionista.

La valutazione dei risultati
Le tesi di laurea e le ricerche svolte sul campo dai laureandi di due università italiane (UNIMORE di Modena e Reggio Emilia6 e Insubria di Varese7) hanno indagato il business intelligence software MPHIM+, utilizzato anche nell’Incubatore d’impresa attivato dal Dipartimento SAAF dell’Università di Palermo (UNIPA) nel 2017 . I risultati di queste indagini hanno comparato la situazione ex-ante ed ex-post delle imprese che hanno adottato il sistema ibrido riprodotto nel progetto PILOT8 , che può essere così sintetizzata:

Situazione ex-ante

  • marketing operativo inesistente o incompleto;
  • assenza di politiche di discriminazione dei prezzi sul canale;9
  • assenza delle attività di controllo e bassa marginalità.

Situazione ex-post

Con il sistema ibrido e il digitale le imprese sono riuscite a differenziare i prezzi per canale vendita senza perdere di vista la redditività aziendale, valutando le commissioni massime da poter applicare in caso di ricorso alla forza vendita indiretta.

La riconoscibilità del ruolo del dottore agronomo e dottore forestale nel progetto PILOT
La consulenza per la scelta dei programmi colturali e di allevamento, per l’impiego delle migliori tecniche di coltivazione dei terreni agrari e forestali e per l’ottimizzazione del reddito nella gestione aziendale, rappresenta una tra le principali competenze professionali dell’agronomo e del forestale.
Le norme sull’ordinamento della professione che facciano parte delle competenze professionali della categoria “la statistica, le ricerche di mercato, il marketing, le attività relative alla cooperazione agricolo-forestale, alla industria di trasformazione dei prodotti agricoli, zootecnici e forestali ed alla loro commercializzazione, anche organizzata in associazioni di produttori, in cooperative e in consorzi”.
Si tratta della competenza professionale più aderente all’idea di “consulenza aziendale” voluta dall’Unione Europea per dare concreta attuazione alle strategie di sviluppo del settore agro-alimentare, attraverso un’azione di stimolo della competitività che possa permettere agli agricoltori, ai giovani agricoltori, ai silvicoltori, alle PMI operanti nelle aree rurali di migliorare la gestione sostenibile, la performance economica e ambientale delle loro aziende.
Il ruolo del dottore agronomo e del dottore forestale assumerà pertanto, una connotazione sempre più strategica all’interno della PMI agroalimentare italiana, favorendo il passaggio dall’impresa monocratica a una organizzazione ibrida nella quale l’imprenditore, attraverso l’assistenza del professionista, può contare su un valido supporto in relazione alle scelte che potranno decretare il successo o l’insuccesso dell’iniziativa economia.

Foto di Elevate

Il progetto PILOT al tempo del COVID-19: da progetto “pilota” a “covid business center” per le imprese agroalimentari.
Non posso ignorare in quest’articolo, gli eventi connessi all’emergenza pandemica che ha travolto l’Italia e il mondo intero, obbligandoci ad affrontare una crisi sanitaria, sociale ed economica senza pari, almeno a memoria d’uomo.
I recenti fatti hanno dimostrato che le aziende capaci di contenere gli effetti della recessione da COVID-19 sono state quelle in grado di mettere in campo risposte immediate e spesso anche radicali.
Tra le aziende aderenti al PILOT, si segnalano le seguenti azioni di contrasto alla recessione da COVID-19:

  • l’azienda agricola Famiglia Ferraro s.s. dedita alla coltivazione di grano duro antico per la successiva trasformazione in farina, ha ingegnerizzato una nuova combinazione di marketing mix per un produttore di biscotti che opera sui mercati internazionali e un nuovo blend per i panifici;
  • il produttore di birra artigianale “Agrifarm Incaria”, che opera sul canale hotel, restaurant e catering (Ho.Re.Ca), tra i settori maggiormente colpiti dalla recessione anche in seguito al periodo di lockdown, ha implementato un sito e-commerce per raggiungere direttamente il consumatore finale;
  • l’azienda agricola Romano, altra impresa aderente al PILOT, anch’essa operante, anche se in misura non prevalente, sul canale Ho.Re.Ca, ha messo in esecuzione un sito e-commerce B2C per contenere la riduzione delle vendite sul cliente “ristorante”.
    Questo è stato possibile grazie all’utilizzo del digitale che ha permesso di reingegnerizzare in maniera rapida ed efficace il modello di business delle imprese aderenti al PILOT, ottimizzando al contempo le risorse disponibili.

A dimostrazione dell’estrema attualità del progetto PILOT, si cita il recente protocollo d’intesa tra il Dipartimento SAAF dell’Università di Palermo10, MPHIM+, la società Progetti e Finanzia Italia Srl e gli ordini Provinciali dei Dottori Agronomi e Forestali delle Provincie di Agrigento, Caltanissetta, Palermo e Trapani, per l’attivazione di un incubatore d’impresa denominato ESCUBE+ COVID-19 sorretto da un team di assistenza alle PMI del comparto agroalimentare, composto dai laureandi e dai Dottori Agronomi e Dottori Forestali, in grado di prestare assistenza a 20 aziende del settore agroalimentare.
L’obiettivo del progetto è quello di sostenere e facilitare nelle aziende aderenti l’adozione di nuovi modelli di business in grado di fronteggiare lo shock di domanda causata dalla recessione da COVID-19, assicurando la continuità aziendale.
In ultima analisi, è utile sottolineare, alla luce dei recenti risvolti dell’economia nazionale, quanto sia importante completare il percorso iniziato da CONAF in Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati appena un anno fa, con la richiesta di inserimento della figura professionale dei dottori agronomi e dottori forestali negli albi e nei registri per la gestione delle aziende in crisi, in modo che si possa dare il nostro contributo anche in materia di risk management e soprattutto nelle imprese agroalimentari, in questo momento particolarmente delicato per il nostro paese.

  • l’azienda agricola Famiglia Ferraro s.s. dedita alla coltivazione di grano duro antico per la successiva trasformazione in farina, ha ingegnerizzato una nuova combinazione di marketing mix per un produttore di biscotti che opera sui mercati internazionali e un nuovo blend per i panifici;
  • il produttore di birra artigianale “Agrifarm Incaria”, che opera sul canale hotel, restaurant e catering (Ho.Re.Ca), tra i settori maggiormente colpiti dalla recessione anche in seguito al periodo di lockdown, ha implementato un sito e-commerce per raggiungere direttamente il consumatore finale;
  • l’azienda agricola Romano, altra impresa aderente al PILOT, anch’essa operante, anche se in misura non prevalente, sul canale Ho.Re.Ca, ha messo in esecuzione un sito e-commerce B2C per contenere la riduzione delle vendite sul cliente “ristorante”.
    Questo è stato possibile grazie all’utilizzo del digitale che ha permesso di reingegnerizzare in maniera rapida ed efficace il modello di business delle imprese aderenti al PILOT, ottimizzando al contempo le risorse disponibili.
A dimostrazione dell’estrema attualità del progetto PILOT, si cita il recente protocollo d’intesa tra il Dipartimento SAAF dell’Università di Palermo , MPHIM+, la società Progetti e Finanzia Italia Srl e gli ordini Provinciali dei Dottori Agronomi e Forestali delle Provincie di Agrigento, Caltanissetta, Palermo e Trapani, per l’attivazione di un incubatore d’impresa denominato ESCUBE+ COVID-19 sorretto da un team di assistenza alle PMI del comparto agroalimentare, composto dai laureandi e dai Dottori Agronomi e Dottori Forestali, in grado di prestare assistenza a 20 aziende del settore agroalimentare.
L’obiettivo del progetto è quello di sostenere e facilitare nelle aziende aderenti l’adozione di nuovi modelli di business in grado di fronteggiare lo shock di domanda causata dalla recessione da COVID-19, assicurando la continuità aziendale.
In ultima analisi, è utile sottolineare, alla luce dei recenti risvolti dell’economia nazionale, quanto sia importante completare il percorso iniziato da CONAF in Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati appena un anno fa, con la richiesta di inserimento della figura professionale dei dottori agronomi e dottori forestali negli albi e nei registri per la gestione delle aziende in crisi, in modo che si possa dare il nostro contributo anche in materia di risk management e soprattutto nelle imprese agroalimentari, in questo momento particolarmente delicato per il nostro paese. ]]>
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P2 “Pianto piante, pesco pesci” //www.agronomoforestale.eu/index.php/p2-pianto-piante-pesco-pesci/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=p2-pianto-piante-pesco-pesci //www.agronomoforestale.eu/index.php/p2-pianto-piante-pesco-pesci/#respond Thu, 26 Mar 2020 11:27:01 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=67574 Avete mai pensato a produrre vegetali allevando pesci o allevare i pesci producendo vegetali? Se la risposta è negativa, allora dovete approfondire il concetto di produzione “acquaponica”, ossia il rapporto di simbiosi tra le due componenti.
Una simbiosi che si esplicita perfettamente nel progetto P2 “Pianto piante, pesco pesci”: un sistema integrato di allevamento che sfrutta le relazioni naturali sinergiche esistenti tra la flora e la fauna con lo scopo di ottenere produzioni di specie ittiche e vegetali commestibili.
L’acquaponica è, quindi, una tecnica agricola molto efficace, che garantisce ottimi risultati, risparmia risorse e rispetta l’ambiente. Comparando i costi, il ritorno dell’investimento per un sistema di acquaponica è inferiore ai 5 anni, mentre una azienda agricola tradizionale richiede minimo 8 anni prima che si possano vedere dei profitti.

Sostenibilità e innovazione
L’agricoltura del futuro sarà orientata da tre grandi vincoli: il risparmio economico e la ricerca di efficienza del processo, la disponibilità (decrescente) di suolo agricolo con una popolazione umana in aumento e l’applicazione dei principi di ecosostenibilità a tutti i sistemi produttivi.
Consci di questo prossimo scenario, è nata l’idea di unire l’acquacoltura (allevamento di specie acquatiche) con la coltivazione idroponica (coltivazione di vegetali fuori suolo) in una relazione di sinergia naturale.
Il risultato? Una produzione a basso impatto ambientale, soprattutto per quanto riguarda le risorse idriche ed energetiche, nel contempo remunerativa ed efficiente, sia per quanto riguarda la produzione di pesci o gamberi che quella dei vegetali commestibili.
Risultati che sono confermati dai dati: diversi studi affermano che in queste condizioni le piante crescono fino al 50% più velocemente; si riduce il consumo di carbonio perché non si usa il suolo e si stima che per ogni 453 gr di pesce prodotto si ottengono da 6 a 11 Kg di verdura. Risultati raggiungibili con una riduzione di oltre il 40% di costi di manodopera.

Acquaponica
Grazie agli studi scientifici iniziati più di trenta anni fa, prima negli Stati Uniti e successivamente in Australia, è possibile allevare pesci e coltivare vegetali commestibili con efficaci sistemi a ricircolo, denominati sistemi acquaponici.
Negli Stati Uniti, Canada, Messico, Germania e Gran Bretagna sono sorti negli ultimi anni diverse aziende che producono con questo sistema. E sempre negli Stati uniti nel 2012 è stata creata una mappa “Plant Hardiness Zone Map” per aiutare gli agricoltori a comprendere quali piante potessero coltivare a secondo delle località geografiche. In Giappone i sistemi acquaponici sono stati addirittura installati nei sotterranei di alcuni grattacieli o in locali adiacenti a ristoranti biologici al fine di fornire cibi freschi a chilometri zero. Altri Paesi come la Cina e la Thailandia, già grandi operatori nel settore dell’acquacoltura, si sono interessati a questo metodo di produzione più ecosostenibile ed efficiente. Nel 2012 negli Emirati Arabi è stato inaugurato il più grande impianto di acquaponica, il “Baniyas Center” (così si chiama l’impianto costituito da due serre principali da 4000 metri quadrati) che è in grado di produrre a regime ben 200 tonnellate di pesce e 300 mila cespi di lattuga ogni anno, contribuendo a ridurre il ricorso all’importazione e fornendo una maggior sicurezza alimentare per la nazione. Inoltre, grazie al modo in cui il sistema ricicla l’acqua, è prevista che quest’ultima rimanga utilizzabile per un anno o più all’interno dei serbatoi senza che vi sia la necessità di sostituirla.
In Italia, solo nell’ultimo decennio è scattato un forte impulso a studiare questi sistemi integrati di allevamento e coltivazione.

Il segreto è il circuito chiuso
P2 è un sistema che presenta una zona di acquacoltura con 4 vasche per l’allevamento dei pesci. L’acqua proveniente da queste vasche, ricca di sostanze nutritive derivate dal metabolismo dei pesci e dai resti di cibo, passa attraverso filtri che trasformano naturalmente i resti organici in elementi fertilizzanti adatti all’assimilazione dalle radici delle piante.
I filtri sono composti da vari materiali (spugne, cannolicchi, carboni attivi, ecc.) e sono inoculati con batteri appositi che trasformano ammoniaca e nitriti in nitrato assimilabile dalle piante. L’azione biochimica dei microrganismi naturali coltivati appositamente rende il sistema di filtrazione istantaneo, simile al filtro degli acquari.
L’acqua trattata è poi convogliata verso i letti di crescita, per irrigare i vegetali senza bisogno di utilizzare terra o concimi di sintesi. I letti di crescita dei vegetali, infatti, sono coltivati fuori suolo e a ciclo chiuso con il meccanismo del “Floating System”, in cui le piante sono poste su supporti galleggianti in vasche impermeabilizzate contenenti la soluzione nutritiva. Coltivare in questo modo offre l’opportunità di ridurre o eliminare gli infestanti, annullare la competizione con altri vegetali e rendere il ciclo molto più produttivo, perché le piantine per metro quadrato saranno in numero superiore rispetto a quelle di campo.
Il ciclo ricomincia quando l’acqua “fitodepurata” ritorna nelle vasche per l’allevamento ittico. Un ciclo chiuso che obbliga con un ulteriore vicolo di sostenibilità: le coltivazioni dovranno essere necessariamente naturali, non potendo utilizzare né antiparassitari né concimi di sintesi, poiché andrebbero a impattare sulla salute dei pesci.

Acqua pura, acqua preziosa
Per dare qualche numero, grazie al continuo ciclo di depurazione delle acque, la riduzione del consumo idrico è stimabile con un risparmio fino all’80-90%, rispetto alla coltivazione tradizionale su suolo.
Considerando che in questo tipo di produzione è necessario disporre di acqua di buona qualità, che non sia contaminata o salina, è facile intuire quanto sia importante avere cura di un bene così prezioso.
Si possono impiegare, infatti, le acque di falda che solitamente sono idonee perché prive di sostanze nocive, così come le acque meteoriche, se raccolte in zone prive di inquinamento atmosferico e che possono essere impiegate previa sterilizzazione con sistema UV.
È anche ammesso l’utilizzo delle acque dell’acquedotto pubblico, anche se è consigliabile una filtrazione osmotica in modo tale da abbassare il contenuto di sali disciolti.

Le specie ideali
P2 è stato pensato per l’allevamento sia di specie ittiche ornamentali come pesci rossi, carpe koi, pesci combattenti, che specie ittiche commestibili come trota, pesce gatto, carpa, pesce persico, anguilla e gamberi di acqua dolce. Mentre le specie vegetali coltivabili sono: lattuga, carota, basilico, sedano, pomodoro, piselli, spinaci, melanzana, peperoncino, fagiolini, fragole, erba cipollina, cetriolo.
La questione è quindi come scegliere il mix più indicato.
La scelta delle specie ittiche è un passaggio delicato per la buona riuscita del progetto, soprattutto nell’ottica di ottimizzare il sistema e ottenere la massima efficienza su entrambe le produzioni.
La prima regola è di orientarsi verso specie che normalmente non hanno bisogno di antibiotici, per mantenere il sistema “naturale”. In secondo luogo, la scelta di specie da “acque calde” semplifica il sistema, poiché qualora si optasse per specie come trote e gamberi servirebbe aggiungere un sistema refrigerante dell’acqua. Impiegando specie più “tolleranti”, invece, le acque delle vasche di coltivazione in serra avranno temperature abbastanza alte ma comunque idonee a quelle specie.
La scelta delle specie vegetali è invece determinata dal mercato, dalla domanda e dal prezzo, poiché la coltivazione in serra consente di soddisfare le richieste tutto l’anno. Volendo fare una considerazione di carattere generale, però, le piante ideali sono quelle da foglia, ma non si escludono anche quelle da frutto.

Senza nulla aggiungere
Questo sistema di coltivazione si presta per la produzione rivolta alla IV gamma: il prodotto presenta un’elevata qualità, intesa come pulizia, cioè assenza di residui di terreno o sabbia, né presenta residui di agrofarmaci, notevolmente ridotti per non dire non assenti.
Per quanto riguarda contenuto in nitrati, carica microbica, caratteristiche organolettiche e nutrizionali, il fatto di poter controllare in modo puntuale le condizioni ambientali e nutrizionali in coltivazione offre buone opportunità di ottimizzare tutti i parametri.
Così come avviene nelle coltivazioni idroponiche in serra, quindi un ambiente “sterile”, si impedisce la proliferazione di insetti fitofagi e organismi patogeni eliminando l’utilizzo di pesticidi, fertilizzanti chimici, diserbanti. Ovviamente nel caso in cui le vasche di coltivazione dei vegetali siano collocate all’aperto, il rischio di attacco di patogeni (non terricoli) è da prendere in considerazione.
In sintesi, l’unico input esterno aggiunto sono gli alimenti delle specie ittiche, che a seconda delle specie allevate, possono essere lo stesso scarto di vegetazione della coltura coltivata.

Poca energia, in piccoli spazi
Due vantaggi ulteriori che caratterizzano questo progetto sono il basso consumo energetico, visto che anche solo un Kw è già sufficiente, e il ridotto spazio necessario, poiché è sufficiente un diametro di 3 metri per le vasche cilindriche per i pesci. Ovviamente il sistema di allevamento è modulabile e si possono inserire più vasche di allevamento proporzionate alle vasche di coltivazione.
Il sistema di riciclo dell’acqua è garantito da pompe e ossigenatori, che possono essere alimentati attraverso un impianto fotovoltaico a isola che assicura la quasi totalità di energia elettrica necessaria, rendendo il sistema energeticamente passivo.

Cibo in città
Il vantaggio conclusivo di produrre con l’acquaponica è che si può produrre cibo in città. Progettando con attenzione la disposizione delle vasche, sia per i pesci che per i vegetali, il sistema è realizzabile in aree dismesse o capannoni, e salire in altezza fino a diventare una vertical farm. E, sfruttando il fattore prossimità ai luoghi destinati alla commercializzazione, la produzione può ridurre i costi economici e ambientali legati al trasporto.
Oltre che preservare suolo fertile, in piena concordanza con gli obiettivi di Agenda2030.

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Microgreens: giovani e teneri ortaggi //www.agronomoforestale.eu/index.php/microgreens-giovani-e-teneri-ortaggi/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=microgreens-giovani-e-teneri-ortaggi //www.agronomoforestale.eu/index.php/microgreens-giovani-e-teneri-ortaggi/#comments Tue, 25 Feb 2020 06:05:48 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=67498 Questo articolo racconta il progetto vincitore del 1° premio 2020 “Dottore agronomo e dottore forestale, progettista del cibo sostenibile”.

1° PREMIO
Nome vincitore: Veetaste Urban Agriculture
Titolo: “Coltivazione indoor di microortaggi

Descrizione progetto: Urban vertical farm è un progetto per coltivare alimenti innovativi di elevata qualità. Coltivando piccole piante si soddisfa la richiesta di alimenti crudi della nouvelle vague culinaria, con prodotti che impiegano il 90% in meno di acqua, non hanno bisogno di agrofarmaci né di fertilizzanti.
Motivazioneper avere coniugato il mondo della ricerca, le richieste del mercato e le esigenze di sostenibilità ambientale

 

Piccoli, nutrienti, gustosi e belli. I microortaggi, consumati principalmente come alimenti crudi, rappresentano un nuovo prodotto dell’orticoltura.
Da un punto di vista di mercato, essi rappresentano una nicchia alimentare in espansione, in cui l’Europa può candidarsi a diventare l’area con la maggiore quota di mercato grazie al crescente progresso tecnologico dell’agricoltura continentale.
Non solo, coltivare microortaggi offre benefici sia per il consumatore (le maggiori qualità organolettiche del prodotto), che per il coltivatore che può valorizzare le caratteristiche produttive e i bassi costi di impianto, ottenibili grazie a un sistema di coltivazione indoor e in “miniatura”.

Conosciamo i microgreen
L’insieme dei micro ortaggi, o microgreen in inglese, racchiude tutte quelle piantine commestibili di specie orticole, specie erbacee ed erbe aromatiche, raccolte e consumate allo stadio di foglie cotiledonari.
Si tratta di un prodotto diverso dai più noti germogli poiché, considerando la fase vegetativa, il ciclo di crescita è più lungo (circa 7-30 giorni a seconda della specie), così che la parte commestibile è composta dallo stelo, dalle foglie cotiledonari e, per alcune specie, dalle prime vere foglie emergenti.

Quali specie sono più vocate?
Non esistono piante vocate a diventare microortaggi ma, un aspetto che li rende sicuramente interessanti, è quello di utilizzare specie che siano il più possibile colorate (dal verde, al rosso, al giallo e con venature) e, magari, che abbiano forme e dimensioni diverse. Tutte queste particolarità riescono oltremodo ad abbellire il piatto di chi le utilizza ai fini estetici.
È importante, però, ricordare di controllare sempre la commestibilità delle piante utilizzate allo stadio di micro ortaggio, per esempio alcune specie di ortaggii della famiglia delle solanacee, in questo stadio, posseggono un elevato contenuto di solanina e risultano quindi non commestibili.

Piccoli ma superfood
In Italia, il prodotto è conosciuto e utilizzato unicamente nella cucina gourmet per esaltare la “bellezza” del piatto. In realtà queste piccole piantine sanno essere un ingrediente innovativo e speciale, capace di esaltare i piatti al di là dell’estetica, aggiungendo gusto (i microortaggi arricchiscono le pietanze con sapori inconfondibili, dal dolce al salato, passando per lo speziato e il piccante) e soprattutto incrementando il profilo nutrizionale.
Confrontandoli con gli ortaggi giunti a maturazione completa, i microgreen si sono guadagnati l’appellativo di super food o di alimenti funzionali per il maggiore contenuto di minerali (Ca, Mg, Fe, Mn, Zn, Se, Mo), di vitamine e dei loro precursori (α-tocoferolo/vitamina E, β-carotene/pro-vitamina A, acido ascorbico/ vitamina C e fillochinone/itamina K1) e di sostanze bioattive quali antiossidanti fenolici, antociani, glucosinolati e carotenoidi.
In una recente ricerca svolta dal Dipartimento di Scienze Agroambientali e Territoriali dell’Università di Bari, i composti bioattivi nei microortaggi di Brassica sono risultati più ricchi di antiossidanti fenolici e con maggiori quantità di α-tocoferolo e carotenoidi rispetto alle verdure mature. Broccoli e lattuga (Lactuca sativa L. Group crispa, cultivar ‘Bionda da taglio’) hanno mostrato le maggiori quantità di vitamina E, mentre le Asteraceae hanno presentato i più alti livelli di carotenoidi.
A puro titolo esemplificativo si possono confrontare i valori delle vitamine C, E, e K di un microcavolo rosso rispetto all’ortaggio adulto giunto all’epoca di maturazione, arrivando a concludere che sono rispettivamente più elevate di 6 volte (vitamina C), 400 volte (vitamina E), 60 volte (vitamina K). Da ciò può facilmente discendere che è sufficiente l’assunzione di quantità notevolmente inferiori di prodotto per avere le dosi giornaliere raccomandate di queste tre vitamine. Per completare l’esempio, prendendo un adulto di peso medio, basterebbero 15g di microravanello per soddisfare la dose giornaliera raccomandata di vitamina E, 41g di microcavolo rosso per soddisfare la dose giornaliera raccomandata di vitamina C e 17g di amaranto per soddisfare la dose giornaliera raccomandata di vitamina K.

Produrre in città
Da oltre 10 anni il prof. Despommier propone le Vertical Farm quale soluzione per garantire cibo a tutti, partendo dall’osservazione dei dati stimati dall’ONU che riguardano la crescita della popolazione mondiale che si stima raggiungerà i 9 miliardi di abitanti nel 2050. Secondo lo studioso questa è l’unica via per ovviare al problema della riduzione superficie agricola utile (SAU): circa l’80% dei terreni disponibili per l’agricoltura sono già stati usati, mentre il restante 20% non sarà sufficiente per soddisfare una popolazione con tale trend di crescita.

Attraverso le Vertical Farm, quindi, diventa possibile reinserire all’interno delle città quella parte produttiva che ha subìto un processo di esilio progressivo: negli anni le città si sono trasformate in centri di servizi escludendo totalmente la produzione alimentare dal disegno urbanistico. Un sistema di colture che può essere realizzato in qualsiasi tipo di edificio, riuscendo a produrre a km 0, in un ambiente pressoché sterile e lontano dalle fonti di contaminazione, così da controllare l’impiego di agrofarmaci e fertilizzanti e conseguentemente eliminare la loro dispersione in ambiente.
Ecco che il ridotto consumo di energia, di spazio, di acqua e il non impiego di alcuna sostanza chimica di sintesi, rendono i microgreen un cibo altamente sostenibile e con una ridotta impronta ambientale, se confrontato con i prodotti dell’agricoltura tradizionale, a parità di quantità di apporti nutrizionali.

Un progetto innovativo e sostenibile
Il progetto che ha dato vita alla Veetaste Urban Agriculture, la prima fattoria verticale a Bari, nasce nel 2017 con l’intenzione di inserirsi nel mercato nazionale del settore, che al momento è dominato dai produttori olandesi.
All’interno di un piccolo spazio chiuso di circa 30mq, la “Urban Vertical Farm” è composta da scaffalature, luci a led a bassissimo consumo energetico, un impianto di condizionamento, ventilazione e deumidificazione, un sistema di controllo a distanza per la temperatura e l’umidità.
Sulle scaffalature sono disposti i letti di coltivazione delle plantule, che crescono su torba e fibra di cocco “bio” per poi essere distribuite unitamente al loro letto di crescita, in modo che il taglio avvenga poco prima dell’utilizzo finale.
La coltivazione indoor offre il vantaggio di impiegare circa il 90% in meno di acqua per l’irrigazione, rispetto a una coltura tradizionale, e il sistema “controllato” consente di non usare agrofarmaci o erbicidi sulle colture, ottenendo un prodotto non semplicemente biologico ma senza tracce di inquinanti al suo interno.
L’innovatività di questo progetto è valorizzata dalla progettazione dell’impianto, con spazi estremamente ridotti ma studiati per ottimizzare produttività e cicli di coltivazione. Gli spazi fisici sono stati compressi fino a consentire la coltivazione di oltre 60 varietà e rispettando i loro cicli di crescita ridotta. A questo aspetto dello studio si è poi aggiunta la scelta della composizione dei substrati, la modalità di irrigazione, l’altezza delle scaffalature pensata per ottimizzare l’insolazione delle prime foglioline cotiledonari, il sistema di illuminazione, il packaging, l’alternanza della luce e del buio nella fase di germinazione: tutte variabili che, unitamente alle prove, hanno permesso di creare un prodotto di altissima qualità.

Il futuro del progetto
Il progetto ha la forza di essere altamente replicabile e soprattutto di poter essere realizzato con un uso limitato di risorse. Il know-how acquisito sarà utilizzato per potersi affacciare su altri mercati e su nuove forme di collaborazione nazionale e internazionale, per poter espandere la rete delle Vertical Farm.
I microortaggi non sostituiranno mai i loro fratelli maggiori, gli ortaggi tradizionali, ma sapranno affiancarsi a essi nei piatti, per renderli ancora più salutari, nutrienti, gustosi e belli.

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DIGIT – HOP: un progetto per la luppolicoltura di precisione //www.agronomoforestale.eu/index.php/digit-hop-un-progetto-per-la-luppolicoltura-di-precisione/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=digit-hop-un-progetto-per-la-luppolicoltura-di-precisione //www.agronomoforestale.eu/index.php/digit-hop-un-progetto-per-la-luppolicoltura-di-precisione/#respond Wed, 29 Jan 2020 14:47:28 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=67468 Questo articolo racconta il progetto vincitore del 1° premio 2020 “Dottore agronomo e dottore forestale, progettista del cibo sostenibile”.

1° PREMIO
Nome vincitore: Ruralset STP
Titolo: “Luppolo digitale

Descrizione progetto: L’impiego di fotocamere offre un aiuto per valutare il grado di maturazione, eventuali sofferenze e le esigenze nutrizionali delle piante.
Motivazione: per avere combinato innovazione e originalità dell’idea, coinvolgendo una rete di professionisti

 

Coltura di nicchia, esplosione del consumo della birra artigianale italiana, alcune fasi critiche della coltivazione e della lavorazione, l’opportunità di avere belle relazioni con studiosi e territori. Sono stati questi gli ingredienti alla base di un progetto di ricerca e sviluppo che ha come focus il luppolo e la digitalizzazione di questa coltura.

Qualche cenno sul luppolo
Il luppolo (Humulus lupulus L.) è una cannabacea, quindi della stessa famiglia della canapa, è erbacea (curiosamente visto che raggiunge una altezza di diversi metri!), perenne e con una foglia assai particolare perché la pagina superiore della lamina è ruvida al tatto, mentre quella inferiore è resinosa.

© Dipartimento di Scienze della Vita, Università di Trieste
foto: Andrea Moro

La specie è dioica, ossia presenta fiori unisessuati maschili e femminili portati su piante diverse.
Siccome nell’attività brassicola sono utilizzate solamente le infiorescenze degli individui di sesso femminile non impollinate, devono essere escluse dall’areale di coltivazione le piante di sesso maschile: il loro polline, infatti, porterebbe a uno scadimento qualitativo del raccolto.
Alla base delle infiorescenze, botanicamente note come strobili e chiamate anche “coni”, sono presenti delle ghiandole resinose secernenti una sostanza giallastra nota come luppolina, che conferisce il caratteristico sapore amaro alla birra. La luppolina è costituita da α-acidi (principalmente composti da umulone, coumulone e adumulone) e dai composti che hanno maggior potere amaricante, β-acidi (principalmente composti da lupulone, colupulone e adlupulone), da polifenoli (es. flobafeni, xantumolo) e da numerosi oli essenziali, principalmente myrcene e humulene. L’humulene, in particolare, è la sostanza più ricercata grazie alla sua capacità di mantenere inalterate le caratteristiche aromatiche della birra nel corso della sua shelf-life.
Il mastro birraio, per amaricare, aromatizzare la birra e per conferirle il gusto e il sapore che le sono propri, usa una quantità molto piccola, poche centinaia di grammi per ettolitro di birra, ma la forza aromatizzante di questa sostanza è sufficiente a caratterizzare le diverse tipologie di birra luppolate nei vari modi.

Un settore con potenzialità
Nel mondo, la superficie attualmente coltivata a luppolo si aggira intorno ai 50.000 ha, principalmente collocati in Germania e Stati Uniti, con produzioni medie cumulate che si aggirano attorno alle 30.000 tonnellate annue di coni di luppolo secco, corrispondenti ai circa 2/3 della produzione mondiale. Altri importanti Paesi produttori sono Cina (15.000 t/anno), Repubblica Ceca (9.000 t/anno), Slovenia (2.200 t/anno) e Regno Unito (1.900 t/anno).
Nel tempo si sono differenziate zone tipicamente vocate alla coltivazione del luppolo all’interno dei Paesi precedentemente elencati, fra cui ad esempio l’areale del Saaz (Žatec) in Rep. Ceca, l’Eger e il Hallertau in Germania, le valli Yakima e Willamette e a ovest del Canyon County, nell’Idaho U.S.A, mentre nel Regno Unito la produzione è concentrata nel Kent.

Mappa dei luppoleti italiani con superficie pari o uguale 1000 m2, aggiornata a maggio 2018. Attualmente sono censiti 84 luppoleti commerciali. La superficie nazionale media coltivata a luppolo è pari a 4860 m2 (fonte: Crea). In totale in un recente convegno i tecnici del CREA hanno comunicato una superficie complessiva di poco meno di sessanta ettari coltivati in Italia.

Il valore del mercato mondiale annuo del luppolo si aggira attorno ai 700 milioni di dollari, di cui 500 milioni riconducili alla produzione agricola e 200 milioni alle aziende di trasformazione e commercializzazione.
In Italia la coltivazione è tutt’ora allo stadio pionieristico sia per la scarsa diffusione della birra artigianale sino a pochi anni fa, che per le modeste quantità di luppolo che occorrono, sia – e forse soprattutto – per una scarsa cultura luppolicola nel nostro Paese. Anche i dati CREA confermano che i pochi impianti produttivi hanno carattere spesso hobbistico o sperimentale e, se si eccettuano pochissimi impianti, le superfici unitarie sono molto piccole (poche migliaia di metri quadrati).

Può avere un futuro questa coltura?
Il fabbisogno di luppolo per uno sviluppo futuro di una filiera è stato stimato in una superficie di coltivazione tra i 200 ed i 300 ettari. Gli areali di ubicazione potrebbero essere moltissimi dalla pianura, alla prima collina.
Inoltre, potrebbe essere una coltura che, ancorché restando una nicchia, potrebbe avviare alcune piccole filiere virtuose legate al territorio, valorizzando gli altri usi del luppolo, come quello alimentare, e connettendoli alla produzione artigianale di birra con la creazione di nuove cultivar, riducendo sempre più il ricorso alla importazione o anche alla coltivazione in Italia di cultivar non autoctone. In questo senso è interessante e sfidante il lavoro che il Comune di Marano sul Panaro, sulla prima collina modenese, fa da anni con studi, ricerche e un convegno annuale che è oramai diventato un appuntamento irrinunciabile per tutti gli appassionati e cultori della luppolicoltura.

DIGIT-HOP
È in un contesto di novità, interesse, potenzialità e contaminazione di attività che è nato il progetto del “DIGIT-HOP”, che RURALSET ha avviato nel 2019.

Coni di luppolo
Foto: CREA

Sono state studiate le fasi di coltivazione della pianta e si è cercato di capire quali fossero i momenti topici e gli snodi critici dove potesse essere necessario digitalizzare il processo con dei sensori, al fine di fornire un sistema di supporto alle decisioni che aiutasse l’agricoltore a compiere le scelte giuste nel momento giusto.
Questo studio ha confermato che è possibile aiutare il luppolicoltore in due momenti: la raccolta dei coni al giusto gradi di maturazione e durante il processo di essiccazione, per determinarne la gestione accurata.
Ancor’oggi, infatti, la maturazione del luppolo e il corretto tempo di raccolta sono determinati in maniera empirica, affidandosi all’esperienza e alla competenza dell’agricoltore: vi è un momento nel quale, grazie al tatto e alla vista, si decide per la raccolta sperando che sia il momento di massima presenza nei coni di sostanze amaricanti e aromatizzanti, prima che giunga il loro naturale declino.

La fase di avvio del progetto
La ricerca iniziale ha previsto l’installazione in campo di una serie di fotocamere e la rilevazione di migliaia di immagini di coni in maturazione, per realizzare una gigantesca banca dati fotografica. Parallelamente, con periodicità, si è iniziato a compiere delle analisi chimiche su campioni di coni in modo da determinare la presenza di sostanze amaricanti.
Correlando immagini e analisi la presenza di alfa e beta acidi è stata messa in relazione con colore, forma e dimensione dei coni, per potere indicare con precisione il momento perfetto della raccolta.
Grazie a una stazione meteo, infine, sono stati raccolti di dati di temperatura, umidità dell’aria, pioggia, vento, indice di bagnatura della lamina fogliare, indice di efficienza fotosintetica, con i quali si è determinata la situazione ambientale presente in campo.
Successivamente, con tutte le immagini raccolte è stato possibile iniziare ad “allenare” un sistema intelligente di riconoscimento, per individuare con grande precisione tutti i coni presenti in una fotografia e mapparne le caratteristiche morfologiche principali.
I primi risultati del progetto sono incoraggianti, anche se occorre essere molto scrupolosi nella esecuzione di molte decine di analisi in parallelo allo scatto delle foto per costruire una relazione tra immagine e caratterizzazione chimica dei coni.
I prossimi passi si concentreranno sullo sviluppo del sistema di machine learning e sull’allenamento degli algoritmi, con il ragionevole obiettivo di attendibilità che possa superare il 90%.

Il processo di essiccamento
Conclusa la fase in campo, il lavoro si è concentrato sul governo del processo di essiccamento, per offrire una soluzione che permetta di gestirlo in maniera digitale.

Essicazione del luppolo
Foto: CREA

Il luppolo, infatti, viene raccolto in uno stadio caratterizzato da un’umidità relativa di circa l’80% e deve essere essiccato, in breve tempo, fino all’8%, per poi essere reidratato in area ambiente fino al 12% circa.
Il primo passaggio è fondamentale per garantire l’arresto dei processi di fermentazione e per preservare le caratteristiche organiche e organolettiche. Il secondo è strumentale a ottenere un prodotto meccanicamente più resistente e più adatto alla successiva compressione e/o pellettizzazione.
Non esistono oggi impianti di essicazione specializzati per il luppolo e, in generale. questo processo è ancora molto artigianale, fondato sulle abilità empiriche e sull’esperienza dell’imprenditore agricolo.

Essicazione del luppolo
Foto: CREA

Per sopperire a questa aleatorietà, il progetto è proseguito in essiccatoio, collocando all’interno della massa di coni un set di sensori di temperatura e di umidità per determinare il migliore momento di stop alla fase di essiccamento e il ciclo di calore più idoneo da erogare alla produzione.
Dai primi dati raccolti si è evidenziato che sarà necessario sviluppare un sistema di sensori in grado di monitorare con grande precisione l’umidità relativa dei coni, e dei modelli predittivi di grande precisione per la gestione delle condizioni e delle tempistiche di essiccazione e successiva reidratazione.

Dove vorremmo andare?
Questo progetto mira a collegare le diverse fasi del processo di coltivazione e di lavorazione dei coni e a diventare uno strumento semplice, scalabile, low-cost, direttamente impiegabile dal tecnico del luppolicoltore e gestibile da remoto. È il grande processo di digitalizzazione dell’agricoltura, che sta compiendo i primi passi concreti e che tanto deve ancora produrre.
Una volta concluso (occorrono ancora almeno un paio di campagne di studio per consentire al progetto DIGIT-HOP di consolidare i risultati), questo progetto dovrà traghettare il comparto da una gestione empirica della raccolta a una determinazione il più possibile “scientifica” del momento ideale, e lo stesso passaggio sarà da compiere per il processo di essicamento. Il tutto in una cornice di sostenibilità e di miglioramento delle performance tecniche- gestionali ed economiche del processo.

 

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