Conaf Scholar – Coltiv@ la Professione //www.agronomoforestale.eu agronomi e forestali Wed, 16 Jun 2021 12:32:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.3.5 Vegetazione riparia e corsi d’acqua vegetati: un mondo da scoprire tra ecologia ed idraulica //www.agronomoforestale.eu/index.php/vegetazione-riparia-e-corsi-dacqua-vegetati-un-mondo-da-scoprire-tra-ecologia-ed-idraulica/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=vegetazione-riparia-e-corsi-dacqua-vegetati-un-mondo-da-scoprire-tra-ecologia-ed-idraulica //www.agronomoforestale.eu/index.php/vegetazione-riparia-e-corsi-dacqua-vegetati-un-mondo-da-scoprire-tra-ecologia-ed-idraulica/#respond Mon, 15 Mar 2021 14:43:43 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68055 di Giuseppe Francesco Cesare Lama, vincitore del premio Stanca 2021
PhD in Agricultural Hydraulics and Watershed Protection, Sezione di Ingegneria Agraria, Forestale e dei Biosistemi – IAFB, Dipartimento di Agraria, Università degli Studi di Napoli Federico II

Le attuali sfide agro-ambientali legate ai cambiamenti climatici stanno mettendo in luce la crescente necessità di tutelare le risorse idriche in maniera sempre più decisa, soprattutto in zone sensibili del territorio italiano. In particolare, cruciale è il ruolo svolto dai corpi idrici vegetati, in cui convivono ecosistemi acquatici e terrestri, per i quali risulta estremamente utile riuscire a definirne il comportamento sia dal punto di vista ambientale che idrodinamico.
In questo studio vedremo come è possibile trasferire le più innovative tecniche di misura delle caratteristiche ecoidrauliche dal laboratorio a corpi idrici vegetati reali colonizzati da specie riparie allo stato naturale.

Ruolo della vegetazione riparia in ecoidraulica
La scienza che si occupa di analizzare il complesso meccanismo di interazione tra vegetazione riparia e corpo idrico vegetato è definita ecoidraulica, una disciplina che si fonda sui principi dell’ecologia e dell’idraulica fluviale.
Questa definizione include al suo interno alter importati discipline, quali la biologia acquatica, la fluidodinamica, la geomorfologia e l’idrologia.

La vegetazione riparia può presentarsi essenzialmente sotto tre forme, in funzione del rapporto tra l’altezza media delle piante ed il livello idrico all’interno del corso d’acqua.

  1. Quando le piante sono più alte del livello idrico, la vegetazione è detta “emergente”;
  2. se la vegetazione si sviluppa al livello del pelo libero, essa è detta “flottante”;
  3. quando le piante sono più basse del livello idrico, la vegetazione riparia è detta “sommersa”.
Le 3 forme della vegetazione riparia. ©Giuseppe Francesco Cesare Lama

Dal punto di vista della risposta alle condizioni di deflusso, i fusti possono definirsi flessibili o rigidi a seconda se si flettano o meno al passaggio della corrente idrica. Tipicamente, piante giovani si comportano come flessibili, mentre piante mature assumono un comportamento rigido.

Nella gestione della vegetazione riparia in corsi d’acqua vegetati, il classico approccio adoperato dagli enti gestori è stato sempre rivolto alla totale rimozione della stessa lungo l’intero perimetro delle sezioni idriche dei canali.
Questo comporta di sicuro un’elevata capacità di convogliamento per l’intero corpo idrico comportando, di contro, un forte impatto ambientale ed ecologico, basti pensare alle specie acquatiche e terrestri che si sviluppano al loro interno.
È altresì vero che la crescita incontrollata della vegetazione riparia nei canali vegetati da un lato garantisce la totale naturalità dello stesso, giocando a favore dei servizi ecosistemici, ma a spese di una bassissima capacità di deflusso, esponendo il territorio circostante a forti rischi di allagamento.

In questo contesto, è di fondamentale importanza riuscire a definire degli scenari di intervento intermedi, che possano garantire un soddisfacente equilibrio tra le necessità di protezione idraulica del territorio, sia esso agricolo che urbanizzato, e la tutela degli ecosistemi aquatici e terrestri che vivono e popolano il corpo idrico, contribuendo ad accrescerne il valore naturalistico.

L’idrodinamica dei corpi idrici vegetati
In questo studio sono stati presi in considerazione, per la prima volta nella letteratura scientifica, le tecniche e le metodologie di laboratorio utilizzate caratterizzazione dell’interazione idrodinamica tra corrente idrica e vegetazione riparia, all’interno di canali di bonifica reali caratterizzati da presenza massiva di vegetazione riparia. L’attenzione è stata riposta sulla Cannuccia di palude (Phragmites australis (Cav.) Trin. ex Steud.), in condizioni di senescenza, avente cioè comportamento rigido. Estremamente diffusa in aree umide e aree depresse dell’intero pianeta, la Cannuccia di palude si sviluppa naturalmente secondo degli stands definiti canneti.

Nello specifico, sono stati condotti degli esperimenti a scala di campo in un canale di bonifica situato all’interno di una rete di bonifica gestita dal consorzio di bonifica 1 Toscana Nord, inserito all’interno del territorio posto sotto la tutela dell’Ente Parco Regionale di Migliarino S. Rossore Massaciuccoli.

Gli esperimenti sono stati volti alla caratterizzazione idrodinamica e vegetazionale del corpo idrico in esame, secondo tre diversi scenari di vegetazione riparia: una condizione di canneti in stato indisturbato, un taglio centrale dei canneti con due corridoi laterali di circa 1 m di vegetazione indisturbato sulle due sponde, e uno scenario di taglio totale dei canneti.

Un confronto tra 3 tipologie di taglio della vegetazione riparia: indisturbata, con taglio centrale e con taglio totale
Un confronto tra 3 tipologie di taglio. ©Giuseppe Francesco Cesare Lama

Il comportamento idrodinamico del corpo idrico in termini di distribuzioni trasversali di velocità media di corrente e principali caratteristiche turbolente è stato analizzato nei tre diversi scenari, nella sezione idrica di monte del corpo idrico attraverso misure del campo 3D di velocità istantanee, effettuate con uno strumento estremamente preciso quale l’acoustic Doppler velocimeter (ADV) in un grigliato composto da tre punti di misura posti a differente altezza lungo cinque verticali, per un totale di 15 punti di misura.

Lo strumento permette di caratterizzare l’intero campo di moto, in modo da poter accoppiare le misure idrodinamiche a misure di caratterizzazione dimensionale dei canneti nella stessa sezione del canale strumentata con l’ADV. All’interno del canale sono stati misurati, nello specifico, il diametro, l’altezza media, e la densità areale delle piante, quest’ultima definita come numero di canne per metro quadro di area di fondo del canale stesso. Per la prima volta a scala reale sono stati anche messi appunto dei modelli di previsione del comportamento idrodinamico dei canali vegetati, basati sul reperimento dei parametri appena menzionati.

Risultati salienti

In particolare, è stato possibile constatare che, nel caso dello scenario di taglio centrale della vegetazione, la capacità di deflusso legata alla distribuzione trasversale di velocità media di portata risulta comparabile, se non strettamente maggiore, della capacità di deflusso riscontrata nel caso di taglio totale e, come era lecito aspettarsi, molto maggiore che nel caso di vegetazione indisturbata. Dalla misura di livello idrico a parità di portata volumetrica circolante nel canale, si evince addirittura un livello idrico minore rispetto al caso do taglio totale, il che comporta anche un maggiore margine di sicurezza in ambito di protezione idraulica dei territori circostanti.

Inoltre, dall’analisi del campo di Energia Cinetica Turbolenta (k) ha messo in evidenza che l’agitazione turbolenta, seppure mantenendosi leggermente minore di quella che si ha nello scenario di taglio totale della vegetazione, lo scenario di taglio centrale dei canneti, consente un’agitazione in 3D molto soddisfacente, quasi dieci volte maggiore di quella relativa al caso di canneto in condizioni indisturbate.

È quindi possibile affermare che la proposta di scenario di gestione della vegetazione ripariale operata attraverso il taglio centrale dei canneti, oltre a fornire una fascia di rispetto di 1 m su ciascuna sponda atta a salvaguardare la qualità ambientale del corpo idrico, riesce a garantire un buon livello di agitazione ed ossigenazione dello stesso, uniti a una riduzione del rischio di allagamento rispetto al caso di canneti in condizioni indisturbate, risultati raggiungibili, cosa da non sottovalutare, attraverso costi di gestione e di forza lavoro minori rispetto al taglio totale dell’intero complesso di canneti all’interno del canale di bonifica.


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Innovazione attraverso la chimica: prospettive per la produzione olearia //www.agronomoforestale.eu/index.php/innovazione-attraverso-la-chimica-prospettive-per-la-produzione-olearia/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=innovazione-attraverso-la-chimica-prospettive-per-la-produzione-olearia //www.agronomoforestale.eu/index.php/innovazione-attraverso-la-chimica-prospettive-per-la-produzione-olearia/#respond Sun, 31 May 2020 10:59:39 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=67752 di Giulia Vicario, PhD student, Istituto di Scienze della Vita, Scuola Superiore S. Anna

Il mondo agroalimentare è strettamente legato a quello della chimica. Il recente sviluppo di metodiche e protocolli analitici offre molte prospettive per vari settori, incluso quello dell’olivicoltura. L’utilizzo di tecniche sempre più avanzate e accurate permette di valorizzare prodotti tipici del territorio italiano (come l’olio extravergine di oliva) e contribuisce a fornire strumenti per migliorare la produzione, specialmente in termini qualitativi.

L’articolo sintetizza i risultati della Laurea magistrale in Biosicurezza e Qualità degli Alimenti, Università di Pisa
Vicario G. Near UV-Vis and NMR spectroscopic analysis of Tuscan extra-virgin olive oils .


La chimica dell’olio
L’olio extra-vergine d’oliva (EVOO) è un alimento ampiamente utilizzato e conosciuto in tutto il mondo per sue proprietà organolettiche e benefiche per la salute. La qualità complessiva dell’olio è strettamente legata alla composizione chimica. L’elevato contenuto in acidi grassi monoinsaturi (acido oleico) e la presenza di specifiche componenti minori sono infatti le peculiarità di questo prodotto.
Tra le componenti minori, i pigmenti conferiscono la tipica colorazione dell’olio d’oliva, variabile dal verde al giallo-arancio: le clorofille (A e B) e le feofitine (A e B, derivate dalle rispettive clorofille) sono responsabili del colore verde, ben evidente alla frangitura, mentre i carotenoidi (principalmente luteina e β-carotene) sono responsabili delle tonalità giallo-arancio. Gli stessi carotenoidi sono importanti antiossidanti e il β-carotene è anche precursore della vitamina A, fondamentale per la vista e per la prevenzione di patologie neurodegenerative. Nonostante nelle analisi sensoriali ufficiali non si consideri il colore dell’olio, è noto che la scelta dei consumatori è influenzata da questo parametro. Non solo, anche la durabilità del prodotto dipende dal contenuto iniziale di pigmenti.
Il tipico aroma dell’olio, soprattutto le note gustative di amaro e piccante, dipendono invece dalla componente fenolica, tra cui i secoiridoidi. Oleuropeina e ligstroside sono secoiridoidi presenti nell’oliva che al momento della frangitura vengono convertiti in secoiridoidi strutturalmente più semplici come i rispettivi agliconi, oleocantale e oleacina (appartenenti anch’essi alla medesima famiglia di composti), responsabili delle note gustative di certi oli. Negli ultimi anni, i secoiridoidi dell’olio sono stati oggetto di particolari attenzioni nel mondo della ricerca in quanto molecole biologicamente attive. Per esempio, l’oleocantale è stato riconosciuto come un antinfiammatorio non steroideo (simile all’ibuprofene nel meccanismo di azione) importante nella prevenzione di patologie croniche, come quelle cardiovascolari, e di alcune tipologie di cancro.

L’origine della qualità
I fattori che influenzano la qualità finale dell’olio d’oliva possono essere molti, inerenti sia alla produzione della materia prima (olive), sia al processo tecnologico di trasformazione.
In merito alla produzione primaria, fattori determinanti sono:
• la cultivar di olivo,
• l’area geografica,
• la presenza di infestazioni,
• le pratiche agronomiche (fertilizzazione del suolo, irrigazione),
• il periodo di raccolta
• il metodo di raccolta.

Considerata pertanto l’alta variabilità del territorio ove è diffusa la coltura dell’olivo, l’analisi approfondita di oli extravergini di oliva di elevata qualità è di fondamentale importanza. Il ruolo della cultivar di olivo è ormai ben noto nel mondo scientifico: l’espressione di particolari enzimi coinvolti nella degradazione di pigmenti o composti fenolici è strettamente dipendente dal genotipo. L’epoca di raccolta, unitamente ai fattori climatici che caratterizzano le varie aree geografiche ove è localizzata la coltura dell’olivo, è ugualmente determinante per la qualità del prodotto finito. La degradazione dei pigmenti responsabili del verde (principalmente clorofille) è tanto più pronunciata tanto più si procede nella maturazione. La presenza della mosca può invece compromettere la qualità in termini di composti fenolici, con diminuzione nel contenuto di agliconi dell’oleuropeina e del ligstroside.

Foto di pau_noia0–603982

Tecniche innovative per caratterizzare l’olio
L’utilizzo di tecniche innovative, come la spettrofotometria vicino ultravioletto-visibile (UV-Vis) e la spettroscopia di Risonanza Magnetica Nucleare (NMR), permette una più ampia e dettagliata caratterizzazione dell’olio.
Il funzionamento dell’analisi UV-Vis è piuttosto intuitivo: quando una molecola è irradiata con una radiazione in un certo intervallo di lunghezza d’onda λ (nel caso della spettrofotometria UV-Vis tra 100 e 720 nm), gli elettroni passano dallo stato fondamentale allo stato eccitato in un processo detto assorbimento. L’assorbimento è direttamente proporzionale alla concentrazione di molecole presenti nel campione e quindi è semplice calcolarne la quantità presente.
Questa tecnica è utilizzata comunemente per la valutazione del quantitativo di dieni e trieni coniugati (molecole derivanti dall’ossidazione degli acidi grassi) nell’olio d’oliva che assorbono a specifiche lunghezze d’onda, rispettivamente a 232 e 270 nm.
Attraverso un approccio innovativo basato sulla deconvoluzione degli spettri UV-Vis degli oli (tra 390 e 720 nm), è inoltre possibile quantificare il contenuto in pigmenti (clorofille, carotenoidi e derivati). Poiché questa misura è ottenuta mediante un sistema rapido e, soprattutto, non distruttivo, è possibile acquisire gli spettri più volte nel tempo per valutare l’evoluzione del contenuto in pigmenti in condizioni di conservazione controllate.
Le basi teoriche della spettroscopia NMR sono, invece, molto più complesse: il segnale registrato deriva infatti dall’interazione di atomi specifici (come idrogeno, 1H, e carbonio, 13C, ampiamente diffusi in natura) con la radiazione in presenza di un campo magnetico.
In una molecola, ogni atomo non si trova isolato, ma legato ad altri atomi, più o meno simili: la differenza dell’intorno chimico permette di distinguere un segnale NMR derivante dall’atomo di una molecola da quello derivante da un altro atomo, o da una molecola differente. L’analisi 1H NMR può essere eseguita sia su campioni di olio tal quali, sia su specifici estratti. L’analisi degli estratti è molto informativa e permette di quantificare alcuni composti fenolici (oleacina, oleocantale, agliconi dell’oleuropeina e del ligstroside).

Foto di Hans–2

I risultati della ricerca
Queste tecniche sono state impiegate nella caratterizzazione di alcuni oli toscani ottenuti nello stesso frantoio, nelle medesime condizioni e ugualmente sono stati conservati, pertanto le differenze riscontrate dipendono da fattori inerenti alla materia prima.
Essendo le olive appartenenti alla medesima cultivar (Frantoio) e alla stessa stagione produttiva, i fattori che possono avere influenzato le differenze e la qualità sono legati al territorio (altitudine degli oliveti), alla presenza di infestazioni (per esempio la mosca dell’olivo) e all’epoca di raccolta. Durante la maturazione, infatti, il contenuto in pigmenti ed in fenoli diminuisce progressivamente e le proporzioni tra i diversi componenti possono cambiare.
Nello studio condotto è stato osservato che il posticipare l’epoca di raccolta, ossia avere elevati indici di pigmentazione delle olive, può garantire una resa adeguata (sostanza grassa nelle olive tra il 20-30%), ma comporta una riduzione nel contenuto totale in pigmenti ottenendo prodotti meno stabili nel tempo e qualitativamente inferiori in termini nutrizionali. Inoltre, ripetendo la misura è stato osservato che il contenuto in pigmenti diminuisce progressivamente, nonostante le corrette condizioni di conservazione (temperatura controllata e assenza di luce).
Nello studio svolto, la quantificazione attraverso metodologie tradizionale dei fenoli totali e l’analisi sensoriale degli EVOO è stata affiancata all’analisi NMR. Nonostante i campioni analizzati provenissero da un’area geografica limitata, sono state osservate differenze non solo nel contenuto in fenoli totali, ma anche nella proporzione delle specifiche componenti (soprattutto oleocantale e agliconi totali). Queste differenze sono osservabili anche nel profilo sensoriale, con un maggior grado di amaro e piccantezza negli oli aventi un quantitativo maggiore di fenoli totali e, nello specifico, di agliconi. Inoltre, l’olio che mostra un elevato contenuto in fenoli mostra anche un più elevato contenuto in pigmenti totali suggerendo che prodotti qualitativamente migliori sono generalmente più ricchi in componenti minori.
In conclusione, i risultati ottenuti con l’impiego di tecniche innovative hanno dimostrato che è possibile rivelare differenze significative anche tra oli aventi una storia molto simile, sia in termini geografici, sia in termini di processo tecnologico. Risultati che permettono di ricondurre tali differenze a fattori inerenti la natura e la gestione dell’oliveto.
Una serie di informazioni che potrebbero tradursi in campo, indirizzando il processo produttivo, grazie anche ai tempi relativamente brevi e ai costi contenuti (soprattutto considerando per l’analisi dei pigmenti) per ottenerle.
Con un ampliamento del numero di campioni analizzati e la valutazione dei medesimi parametri in diverse annate, si potrebbero anche generare modelli di previsione del profilo chimico e sensoriale dell’olio in base alla gestione dell’oliveto in termini di pratiche agronomiche (come l’irrigazione) e all’epoca di raccolta, parametro che sembra cruciale nella determinazione del contenuto in componenti minori. I risultati ottenuti sono preliminari ma dimostrano come l’unione di più aree scientifiche, quella dell’agronomia, delle tecnologie alimentari e della chimica, possa essere estremamente importante per la messa a punto di nuove metodiche ed il loro successivo trasferimento tecnologico. Allo stesso modo, è cruciale la sinergia costante di contesti diversi, quello accademico e quello produttivo, soprattutto per lo studio degli effetti delle condizioni reali di campo.


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Progetto CaSCo e certificato Low Carbon Timber //www.agronomoforestale.eu/index.php/progetto-casco/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=progetto-casco //www.agronomoforestale.eu/index.php/progetto-casco/#comments Mon, 04 May 2020 04:31:30 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=67670 di Giovanni Maiandi (dottore forestale, consulente di Unione Montana Valsesia), Silvia Pirani (dottore forestale, consulente di Unione Montana Valsesia),Luca Galeasso (Environment Park)

Progetto CaSCo e certificato Low Carbon Timber

Il problema dei cambiamenti climatici focalizza ormai da anni l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, oltre che della comunità scientifica.
Nel Nord Italia, a tale questione si aggiungono gli effetti dell’elevato tasso di particolato e biossido di azoto in atmosfera, cosicché il fenomeno determina un peggioramento della qualità dell’aria per il quale il nostro Paese è soggetto a procedura d’infrazione da parte dell’UE.
Nel settore della produzione del legno, la componente di gran lunga più impattante sotto questo profilo è quella del trasporto, che è anche il segmento sul quale è possibile incidere maggiormente con strategie volte a ottimizzare i trasferimenti.

Legname di prossimità
Il progetto internazionale CaSCo (acronimo di Carbon Smart Communities)1 è un progetto europeo finanziato dal programma Interreg Spazio Alpino incentrato sulla promozione del “legname di prossimità”.
L’obiettivo di questo progetto è stato, per l’appunto, quello di incentivare la riduzione delle distanze coperte nel ciclo produttivo degli assortimenti legnosi, massimizzando la sostenibilità e riducendo gli impatti climalteranti associati ai trasporti. Tale approccio sottintende il passaggio dalla tradizionale idea geografica di “regionalità”, che spesso non trova una giustificazione nelle caratteristiche tecnologiche del legname locale, a un’idea di “sostenibilità”, che punta sul maggior valore ambientale del materiale lavorato e posato vicino al luogo di raccolta.
Si tratta di un progetto è piuttosto articolato, che comprende una raccolta dati sulle filiere locali, attività di animazione e formazione rivolte a imprese, enti pubblici, tecnici, una sezione specificamente dedicata al tema del green public procurement, iniziative di comunicazione, e anche lo sviluppo di strumenti di supporto e la loro sperimentazione attraverso progetti pilota che coinvolgono il tessuto produttivo del settore forestale e la pubblica amministrazione.
Oggi, il progetto CaSCo è in fase conclusiva e con esso termina la sperimentazione degli strumenti che sono stati messi a punto per supportare un’iniziativa di più ampio respiro, in grado di coinvolgere un maggior numero di operatori e tecnici del settore. Alcuni degli output realizzati offrono spunti originali per la promozione del legname piemontese e per la professione del Dottore Forestale.

Il certificato Low Carbon Timber
Con CaSCo si è avviato l’adeguamento al contesto piemontese e italiano di un sistema di certificazione tedesco, Holz von Hier (trad. Legno da qui), in grado di attestare la distanza percorsa da un assortimento legnoso nel proprio ciclo produttivo, dal luogo di raccolta alla destinazione finale.
Ne risulta un’informazione molto diretta e di facile comprensione, i chilometri effettuati, che è direttamente correlata con l’impronta di carbonio (la quale può essere calcolata e inclusa nella certificazione).
La versione italiana del marchio prende il nome di Low Carbon Timber (LCT) ed è in fase di sperimentazione.
I requisiti di base per accedere al certificato sono:

  • la sostenibilità della gestione forestale
  • il rispetto di soglie massime di distanze sottese al processo produttivo, definite per assortimento.
Benchmark 
(distanze in km) adottati a titolo sperimentale per la certificazione Low Carbon Timber (distanza riferita all’intero processo produttivo, dalla raccolta alla posa)
Benchmark:distanze in km adottati a titolo sperimentale per la certificazione Low Carbon Timber (distanza riferita all’intero processo produttivo, dalla raccolta alla posa)

Nell’attuale carenza di superfici forestali certificate GFS, per ora in Italia il rilascio richiede una verifica dei requisiti de facto di sostenibilità, legalità e tracciabilità, attraverso una documentazione che qualsiasi taglio boschivo legale eseguito da un’impresa forestale iscritta all’Albo può produrre. Anche le distanze-soglia di riferimento sono state adattate alla realtà italiana, adottando in via sperimentale la tabella in figura.

Prospettive di sviluppo per il “legno di prossimità”
Il settore legno italiano è affetto da un gap importante tra la domanda, cospicua, continua e strutturata, di legname e semilavorati da parte dell’industria di seconda trasformazione, e l’offerta interna, ridotta e frammentaria, che ai piccoli acquirenti locali preferisce grandi compratori fuori-zona in grado di ritirare il materiale in qualsiasi momento, anche se a prezzi più bassi.
A fronte di un settore delle costruzioni che, quando pure utilizza il materiale legno, si orienta quasi sempre su lamellare e sistemi progettuali e costruttivi standardizzati, non è realistico pensare che la promozione del “legno locale” possa in qualche modo ridurre la dipendenza di questo mercato mainstream dalle importazioni. La chiusura di molte segherie in conseguenza della crisi del 2009-11 è già di per sé un ostacolo insormontabile alla ricostituzione di filiere territoriali capaci di flussi importanti.
Tuttavia, nel corso del progetto è emersa anche una realtà, diffusa quanto sottovalutata, di scambi proficui tra operatori locali. In Valsesia per esempio, uno dei territori di indagine che ha ospitato un certo numero di esperienze pilota, la costruzione e ristrutturazione delle case tradizionali in legno, in un’area caratterizzata dalla presenza dei Walser2, è un ambito di particolare interesse per la valorizzazione del legname locale, che già si utilizza insieme a quello di importazione. Si evidenzia che, a differenza di quanto osservato presso i partner di progetto tedeschi e austriaci, concentrati nell’ottimizzare le catene di approvvigionamento di grandi flussi di merci industriali, la declinazione italiana del legno locale passa per la valorizzazione di piccole lavorazioni artigianali, per lo più in legno massiccio, con un elevato grado di esperienze legate alle tradizioni costruttive locali.
Sebbene siano stati certificati LCT manufatti in legname lamellare di castagno prodotti in regione, sembra delinearsi una sinergia legno locale – legno massiccio – sistemi costruttivi artigianali, contrapposta al sistema legno d’importazione – legno lamellare – prodotti e sistemi costruttivi standardizzati, che fa intravedere una possibile connotazione in stile slowfood come veicolo promozionale in grado di valorizzare il legname locale.

Costruzioni, palerie, cippato: 3 settori da esplorare
Individuata la potenzialità, il ruolo del tecnico forestale sarà quello di “scovare” sul territorio queste condizioni partendo da produzioni esistenti e renderle appetibili mettendone in luce le performance ambientali con adeguati strumenti, come può essere il marchio Low Carbon Timber.
Non bisogna sottovalutare, infatti, che esiste una clientela finale pronta a recepire l’importanza del valore aggiunto conferito a una costruzione dall’utilizzo di legno a km0, se reso adeguatamente riconoscibile da una certificazione di terza parte.

Anche nel settore della paleria sono emersi spunti simili. Produzioni vitivinicole pregiate, in espansione nella fascia pedemontana compresa tra Biellese e Alto Novarese (Bramaterra, Gattinara, Boca, Ghemme) tengono molto all’immagine del loro prodotto e sembrano interessate all’uso di paleria certificata di prossimità.

La filiera è da costruire e compito del dottore forestale sarà, oltre che mettere in rete gli operatori, individuare soprassuoli in grado di fornire assortimenti adatti in una zona in cui pochissimi sono i cedui a regime. Nell’ingegneria naturalistica e negli arredi esterni, soprattutto in aree protette e della rete Natura 2000, c’è spazio per proporre elementi in legname km 0, come fa Oasi Zegna, uno degli aderenti al progetto CaSCo più significativi.

Fornitura di pali certificati LCT destinata all’impianto di una vigna per la produzione di Bramaterra

Infine, la filiera del cippato da riscaldamento ha in questo momento un forte bisogno di dimostrare la propria ecosostenibilità, vista l’incidenza sull’inquinamento da particolato attribuita alle biomasse legnose. Ciò può essere fatto attraverso un bilancio globale delle emissioni del ciclo produttivo, in cui diventano decisivi la qualità dell’impianto, la qualità del combustibile e il bilancio delle emissioni nel ciclo produttivo. Nell’ambito del progetto CaSCo, i due fornitori di calore da biomasse operanti in Valsesia emetteranno un certificato LCT periodico che dimostri la sostenibilità della catena di approvvigionamento, a vantaggio dei Comuni proprietari degli impianti.

Conclusioni
Il progetto è in chiusura e lascia in eredità un kit di strumenti promozionali del legno locale; tra questi spicca il protocollo Low Carbon Timber, che alcuni operatori economici convolti nel progetto utilizzano già in chiave commerciale e promozionale della loro attività.
Pur senza alimentare l’illusione di ricostruire una filiera foresta-legno nazionale che riduca la nostra dipendenza dalle importazioni, anche grazie a questi strumenti un approccio bottom-up può aumentare visibilità e interesse verso produzioni di nicchia km0 ecosostenibili, che possono stimolare l’offerta di tondo locale e crescere armonicamente con essa.
I dottori forestali sono gli unici soggetti che possiedono le competenze tecniche e, soprattutto, una conoscenza del territorio e degli operatori tale da poter operare in questo senso. Il ruolo del professionista è basilare, ma deve arricchirsi di conoscenze commerciali che emergono come il punto debole della sua formazione ed esperienza: la dimestichezza col mercato del legno e la capacità di muoversi in esso.
Allo stesso tempo, è necessaria una cabina di regia a livello regionale che supporti le filiere locali mettendole in rete, una sorta di clusterdel legno locale, attore di una progettualità che sia in grado di convogliare risorse comunitarie su strategie mirate, senza disperderle in una pletora di iniziative puntuali e scoordinate.

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Impatto delle traslocazioni storiche del larice europeo //www.agronomoforestale.eu/index.php/impatto-delle-traslocazioni-storiche-del-larice-europeo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=impatto-delle-traslocazioni-storiche-del-larice-europeo //www.agronomoforestale.eu/index.php/impatto-delle-traslocazioni-storiche-del-larice-europeo/#respond Tue, 24 Mar 2020 15:40:09 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=67554 Hannes Raffl è l’autore di questa ricerca vincitrice del “Dr.-Berthold-Pohl” grant 2019, assegnato dall’Ordine dei Dottori Agronomi e Dottori Forestale di Bolzano.
L’intero studio è stato pubblicato nel Journal Annals of Forest Science “Genetic evidence of human mediated, historical seed transfer from the Tyrolean Alps to the Romanian Carpathians in Larix decidua (Mill.) forests

 

Il larice europeo (Larix decidua) è una specie pioniera in Europa, è deciduo ed endemico ma ha una distribuzione nativa che è altamente separata. La specie, infatti, nel nostro continente si presenta principalmente in quattro regioni: le Alpi, i Carpazi, i Sudeti orientali e la pianura polacca, che rappresentano l’area nativa ricolonizzata dalla specie dopo l’ultimo periodo glaciale.
Grazie a questa separazione tra gli areali, si sono sviluppate diverse varietà che differiscono sia a livello molecolare che morfologico, per esempio in alcuni tratti di crescita, nella dimensione del cono o nel colore dei fiori femminili. Tutte e quattro le regioni possiedono quindi il proprio pool genetico (refugia), che svolge un ruolo importante nella conservazione e nell’adattamento ai futuri cambiamenti ambientali (e al cambiamento climatico).

Le posizioni di campionamento. Punti blu: Tirolo del nord, Austria; punti verdi: Provincia autonoma di Bolzano, Italia); punti rossi: Romania. R1, R2 e R4 sono le popolazioni di larici autoctoni, R3 è il rimboschimento alloctono dell’Alto Adige in Romania. La gamma di distribuzione nativa di Larix decidua con le quattro regioni (a: Alpi, b: Carpazi, c: Sudeti orientali, d: pianura polacca) è indicata dalla linea tratteggiata arancione.

Secoli di silvicoltura
Il larice europeo è un’importante specie forestale utilizzata principalmente per il suo legname, anche se scandole e assicelle sono comunque prodotti importanti a livello locale.
L’appetibilità sul mercato di quest’albero, a cavallo tra il XVII e l’inizio del XX secolo, l’ha reso una delle specie predilette per la silvicoltura a scopo commerciale in tutti i 4 gli areali nativi. In particolare dopo la seconda metà del XIX secolo, periodo in cui si è accentuato sia il commercio di legname che la coltivazione forestale grazie alla rapida istituzione del sistema ferroviario nell’Europa centrale e settentrionale, che ha favorito il commercio di materiale vegetale.
L’impatto della silvicoltura e dei rimboschimenti hanno conseguentemente allargato l’areale iniziale, che si è esteso sia all’esterno e anche all’interno delle quattro aree native della specie, fino a raddoppiare le superfici: oggi è comune trovare il larice in tutta la zona temperata dell’Europa (in particolare Germania, Francia, Danimarca, Gran Bretagna, Svezia e Norvegia).

Sotto un unico impero
Durante l’Impero austro-ungarico, la coltivazione di larice alpino è stata fortemente promossa. In questo contesto storico, i lariceti dei Carpazi meridionali e orientali (Transilvania, Romania), regione all’epoca sotto il potere asburgico, hanno subito un forte trasferimento di piante e semi di larice provenienti da altre regioni native, in particolare da quelle tirolesi (alpine).
Purtroppo, le informazioni sull’esatta provenienza del materiale vegetale sono raramente disponibili, ma l’ipotesi dell’impiego di materiale vegetale proveniente dalle Alpi è accreditata sia dal comune governo delle due regioni geografiche, che dalla parziale documentazione disponibile sul commercio di semi: diversi registri tracciano l’uso di semi alpini, provenienti principalmente dal Nord Tirolo (Austria) e dalla valle Adige e Isarco della Provincia Autonoma di Bolzano (Italia) a partire dalla metà del XIX secolo.

La ricerca del genoma originario
A distanza di quasi un secolo dal crollo dell’impero asburgico, è ancora possibile trovare il larice delle Alpi in Romania?
In tal caso, è rilevabile l’influenza tirolese sul patrimonio genetico delle popolazioni di larici rumeni autoctoni, siano essi adulti o giovani esemplari di rigenerazione naturale?
Mancando un inventario genetico del larice europeo all’interno dell’attuale area di distribuzione, per rispondere a queste domande è stato necessario indagare l’introgressione / ibridazione genetica nelle popolazioni rumene sulla base di un confronto genetico tra i larici rumeni e tirolesi (alpini).

Dendrogramma genetico che mostra le relazioni tra i genomi di larice campionati. I cerchi riassumono i relativi stand e formano i rispettivi gruppi genetici. Ciò che colpisce è il raggruppamento tra le due regioni Tirolo e Romania ma anche all’interno delle regioni, che indica un’elevata biodiversità genetica del larice europeo. R: Romania T: Tirolo ST: alto adige A: esempliare adulto J: esemplare giovane

La ricerca ha visto, quindi, una prima fase di raccolta di aghi e cambium di larici rumeni, includendo materiale proveniente anche da tre areali nativi dei Carpazi meridionali e orientali (denominati R1, R2, R4 in Fig. 1 e 2 e divisi ciascuno in adulti e giovani). Una difficoltà della ricerca, infatti, è data dal fatto che le attuali popolazioni autoctone di larici in Romania sono molto frammentate e di difficile individuazione: sono note solo tre piccole aree native, di appena 100 ettari, poste sulla fascia altitudinale subalpina e che formano degli importanti hotspot di biodiversità nei Carpazi meridionali e orientali.
Al materiale romeno si sono aggiunti i campioni raccolti in quattro lariceti, due nel Nord Tirolo (Austria; denominati T9-12 in Fig. 1 e 2) e due in Alto Adige (Provincia Autonoma di Bolzano, Italia; denominati ST5-8 in Fig. 1 e 2) così da includere nell’analisi la possibile area di origine delle traslocazioni di semi e piante.
Per quanto riguarda le aree native romene, vista la limitatezza delle superfici, non si ha la certezza della purezza genetica delle piante, che potrebbero essere state inquinate dai geni del larice tirolese traslocato. Se così fosse, il trasferimento di larice non adattato a quello specifico ambiente potrebbe aver causato casi di ibridazione intraspecifica e avere prodotto un cambiamento nella capacità di resistenza e nella capacità di adattamento ai cambiamenti ambientali delle popolazioni autoctone locali.

Certificato di origine
Per le analisi di laboratorio sono stati usati i cosiddetti microsatelliti (tratto di DNA non codificante ripetuto molte volte, caratterizzato da una sequenza di due o tre nucleotidi ripetuta in gruppi sparsi in tutto il genoma) che consentono di scoprire le informazioni genetiche partendo dagli aghi e dal cambium e, conseguentemente, di ottenere le caratterizzazioni genetiche di ciascun individuo e identificare le diverse relazioni genetiche.
Un lavoro notevole, ma che ha dato i suoi frutti: per la prima volta è stato possibile provare con certezza la presenza dei larici tirolesi (alpini) in Romania.
Il modello genetico ricavato, infatti, ha confermato la provenienza nord tirolese dei larici alloctoni in Romania, dato coerente con i documenti storici che tracciano i trasferimenti di semi provenienti da fonti alpine (tirolesi) nei Carpazi orientali e meridionali.
Inoltre, è stata individuata un’intera foresta di larici tirolesi vicino alla città di Braşov in Romania (chiamata R3 nelle Fig. 1 e 2) e, anche se sarebbe necessario procedere con analisi più approfondite, è plausibile ipotizzare che ci possano essere singoli individui tirolesi all’interno delle popolazioni native. In questo caso, la comprensione e la misurazione dell’entità di tale impatto genetico è tanto interessante quanto difficile, poiché dipendente dalla composizione genetica delle popolazioni residenti e dalla differenza ambientale tra i siti di emigrazione e quelli di immigrazione, anche se certamente è maggiore quando le popolazioni locali sono piccole, proprio come nel caso romeno.
Procedendo con la mappatura delle relazioni tra i singoli lariceti, come raffigurato nel dendrogramma che separa i cluster in base alle differenze genetiche, è interessante da sottolineare la posizione della foresta rumeno R3: geneticamente deve essere inserito nel gruppo nord tirolese, il che conferma la sua origine alpina.

Risultati inattesi
C’è stato anche un risultato parzialmente difforme dalle aspettative. Se da un lato la genetica conferma la presenza di esemplari tirolesi in Romania, tuttavia l’inquinamento riscontrato appare in misura minore alle attese: gli ibridi intraspecifici sono scarsamente rappresentati (percentuale massima del 3%) sia negli adulti che negli esemplari più giovani di rigenerazione naturale.
A ciò si aggiunge che la percentuale degli ibridi è leggermente più alta negli esemplari di rigenerazione naturale, confermando l’inizio di un processo di integrazione dei geni tirolesi “disadattati” nelle popolazioni di larici naturali, ma con ritmi molto lenti. Una lentezza nell’integrazione genetica che parrebbe sostenere un’ipotesi: alcuni parametri della riproduzione gamica sembrano essere mal sincronizzati, per esempio la fenologia della fioritura o la selezione postzigotica, il che potrebbe causare mortalità embrionale e giustificare i limitati tassi d’ibridazione.

Uno degli stand autoctoni di larice nel Tirolo (Austria), indicato come T12 nelle figure 1 e 2.

Conclusioni
Questo studio ha dimostrato che i larici del Tirolo e quelli della Romania differiscono geneticamente, il che è sostanzialmente riconducibile alla separazione delle diverse aree di rifugio formatesi durante l’ultima era glaciale.
Ma questa grande differenza genetica è stata riscontrata anche all’interno delle stesse regioni campionate: è stato possibile distinguere gli esemplari del Nord Tirolo da quelli dell’Alto Adige e, in Romania, tra quelli dei singoli lariceti autoctoni, in cui ognuno presenta il proprio caratteristico hotspot genetico. Come si vede bene nella figura 2, all’interno del cluster rumeno si possono individuare i tre lariceti autoctoni, che mostrano grandi differenze genetiche tra loro, con le singole popolazioni che si mantengono quasi indipendenti con tassi di consanguineità relativamente elevati. Un’interessante rilevazione considerando il ruolo importante che svolgono nella conservazione della biodiversità.

 

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Una nuova possibilità per la copertura dei rischi: la polizza ricavi //www.agronomoforestale.eu/index.php/una-nuova-possibilita-per-la-copertura-dei-rischi-la-polizza-ricavi/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=una-nuova-possibilita-per-la-copertura-dei-rischi-la-polizza-ricavi //www.agronomoforestale.eu/index.php/una-nuova-possibilita-per-la-copertura-dei-rischi-la-polizza-ricavi/#respond Tue, 21 Jan 2020 15:48:50 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=67443 Giada Mastandrea è la vincitrice del premio di laurea 2019 della Fondazione “Mario Ravà” per la tesi di laurea magistrale “Nuovi strumenti e nuove politiche sulla gestione del rischio: la polizza ricavi“, un tema cruciale nella moderna gestione dell’impresa agricola, come dimostrano i recenti interventi normativi e le riflessioni inserite nella PAC.
Questo articolo ne racconta i principali risultati.

L’impresa agricola si trova oggi a operare in un contesto totalmente diverso dal passato, poiché necessita di adattamenti continui e richiede impegni finanziari di medio e lungo termine. Tuttavia, la bassa redditività del settore e i molteplici rischi ai quali l’impresa è esposta, rendono difficilmente sostenibile gli investimenti aziendali e lo sviluppo d’impresa.
È questo il motivo per il quale la gestione del rischio in agricoltura ha assunto un ruolo di rilievo all’interno della Politica Agricola Comune. Diventa, perciò, interessante capire quali sono le potenzialità per le imprese di questi nuovi strumenti, guardando alle nuove possibilità di copertura dei rischi e in particolare alla polizza ricavi.

La polizza ricavi
Tra gli strumenti di gestione del rischio più recenti e innovativi è possibile annoverare la polizza ricavi, una polizza sperimentale introdotta dal Piano Assicurativo Agricolo Nazionale 2017, che copre la perdita di ricavo della produzione assicurata. La novità consiste nel fatto che questa tipologia di polizza mira a garantire ai produttori un ricavo certo, difatti copre, oltre ai danni dovuti alle avversità atmosferiche anche la variabile prezzo.
La perdita è determinata come combinazione della riduzione di prezzo di mercato con la riduzione di resa, sia essa causata da avversità catastrofali quali gelo e brina, siccità e alluvione, da avversità di frequenza, quali eccesso di neve e di pioggia, grandine e vento forte oppure avversità definite “accessorie”, quali il colpo di sole e vento caldo, sbalzi termici.
Si tratta di un’opportunità sperimentale e quindi non ancora disponibile per tutti: gli agricoltori possono sottoscrivere tale polizza esclusivamente per il frumento duro e tenero generico.

Conviene sottoscrivere una polizza?
L’idea di gestire il rischio tramite polizza pare positiva, ma prima di dare un giudizio conclusivo è bene comprendere le reali opportunità e i possibili impatti di questo strumento nel panorama agricolo nazionale. Quale convenienza economica hanno le aziende agricole nel sottoscrivere la polizza ricavi? Ed è un mercato appetibile per le compagnie di assicurazione?
Per procedere con l’analisi, sono state selezionate 456 aziende a frumento duro generico e 445 aziende a frumento tenero generico, distribuite nel territorio nazionale, ed è stato preso in considerazione l’intervallo temporale 2008-2016.

La polizza ricavi poggia le sue fondamenta su quattro parametri essenziali:

  1. rese iniziali (Q0i) – calcolate mediante media olimpica;
  2. rese finali (Q1i) – estrapolate dalla banca dati RICA;
  3. prezzi iniziali (P0) – definiti come i prezzi massimi assicurabili del decreto ministeriale;
  4. prezzi iniziali (P1) – prezzi medi all’origine ISMEA come media tra luglio e settembre.

Va considerato che la fase di sperimentazione è stata eseguita nel momento in cui stava entrando in vigore il Regolamento Omnibus che ha previsto, per le polizze assicurative, l’innalzamento dell’aiuto pubblico dal 65% al 70% della spesa ammessa e la riduzione della soglia di danno dal 30 al 20%. Pertanto, per l’ipotesi iniziale, sono stati assunti i seguenti parametri:

  • soglia e franchigia pari al 20%;
  • contributo pubblico pari al 70%;

I calcoli eseguiti (tabella 1) hanno permesso di verificare la convenienza della polizza.

I conti tornano
La polizza per risultare sostenibile per la compagnia assicurativa dovrebbe avere un rapporto S/P1 intorno a 0,70, valore che consente il superamento del break even point, in modo tale che la compagnia ottenga più premi di quanti sinistri paga.
Difatti, considerato 100 il premio, il 30% di questo è destinato alle spese relative:

  • ai costi peritali;
  • alle provvigioni destinate ai venditori delle polizze;
  • alle spese di gestione amministrativa della compagnia;
  • alle spese di riassicurazione;
  • all’utile della compagnia assicurativa.

Il vantaggio dell’imprenditore agricolo, invece, è rappresentato dal rapporto risarcimenti/costo effettivo per l’azienda (R/P2) che dovrebbe risultare sempre maggiore di 1.

Obiettivi della sperimentazione:

  • ottenere un rapporto sinistri/premi pari a 0.70, ossia sostenibile per la compagnia di assicurazione;
  • ottenere un rapporto risarcimenti/costo effettivo per l’azienda maggiore di 1, ossia sostenibile per gli imprenditori agricoli (i calcoli indicano che la media dei R/P2 non è solo maggiore di 1 ma si aggira intorno a 2.40).

Dai calcoli eseguiti risulta che, con un tasso pari a 7.7 per il frumento duro e pari a 6 per il tenero, la polizza ricavi è sostenibiletanto per le compagnie che incassano più premi di quanti sinistri pagano, quanto per le aziende agricole, poiché negli anni considerati ottengono risarcimenti di gran lunga superiori al costo effettivo delle polizze che sottoscrivono.

Com’è possibile? Grazie al settore pubblico, che volendo tutelare gli agricoltori dai maggiori rischi legati all’attività agricola, copre il costo delle polizze fino ad un’aliquota massima del 70%. La contribuzione pubblica, infatti, assorbendo la maggior parte del costo della polizza, la rende vantaggiosa per tutti i soggetti coinvolti.

Nel caso del frumento duro, il 2010, tra i diversi anni presi in esame, corrisponde all’anno in cui la compagnia ha pagato più sinistri, difatti circa l’84% delle aziende, sono state risarcite. Significative percentuali si riscontrano anche nel 2009 e nel 2016, mentre negli altri anni, si rileva una percentuale modesta di aziende andate a sinistro (grafico 1).

Il 2009, invece, corrisponde all’anno in cui per il frumento tenero sono scattati più risarcimenti, rispettivamente per 344 aziende su 445; contrariamente nel 2012 solo per 3 aziende su 445.

Il trend scostante dei risarcimenti nei diversi anni considerati può essere facilmente spiegato se si considera che la polizza ricavi, copre sia l’effetto resa che l’effetto prezzo; è proprio quest’ultimo però a essere catastrofale poiché si verifica su tutto il territorio nazionale e non è localizzato e puntuale così come le calamità naturali.
Verificando quanto incidono l’effetto resa e l’effetto prezzo sui risarcimenti si evince come le avversità si presentino con minore o maggiore intensità e frequenza in tutti gli anni considerati, invece, l’effetto prezzo influisce in maniera rilevante sul frumento duro solo in tre anni su nove (2009-2010 e 2016) ove pesa sui risarcimenti rispettivamente per il 33%, 83% e 95% (grafico 2).

Caso aziendale A
L’ulteriore domanda di ricerca ha cercato di simulare un altro scenario; per far ciò, sono state selezionate alcune aziende, al fine di analizzare l’andamento del reddito netto negli anni presi a riferimento e verificare come questo varia se sommato ai risarcimenti che avrebbero ottenuto le aziende nel caso in cui avessero stipulato la polizza ricavi. In questa sede verrà riportato solo un esempio esemplificativo dell’analisi effettuata.
Se l’azienda A avesse sottoscritto la polizza ricavi negli anni 2008-2016, avrebbe avuto accesso nel 2009 a un risarcimento pari a 530 €/ha, che le avrebbe consentito di chiudere in positivo il bilancio annuale (342 €/ha a cui va detratto il costo della polizza pari a 28 €/ha). L’azienda, inoltre, sarebbe andata a sinistro anche nel 2010, ottenendo un risarcimento di 710 €/ha e nel 2016 con 102 €/ha; tali risarcimenti si sarebbero andati a sommare a redditi netti ad ettaro già positivi e pari a 993 €/ha nel 2010 e 1337 nel 2016 €/ha, che avrebbero contribuito ad assestare e stabilizzare l’andamento medio del reddito aziendale (grafico 3).


Elementi di criticità
Nonostante i dati dimostrino chiaramente la convenienza nel sottoscrivere la polizza ricavi nel medio-lungo periodo, sia per le aziende agricole che per le compagnie di assicurazione, tale tipologia sperimentale di copertura dei rischi ha riscontrato varie criticità nella sua diffusione.
Per quanto riguarda il mercato assicurativo, va detto che non ha creduto in questa nuova polizza e ciò si è tradotto un’offerta modesta, limitata a una sola compagnia. Inoltre, la possibilità per le compagnie di assicurazione e di riassicurazione di fissare prezzi assicurati inferiori a quelli decisi a livello ministeriale, riduce significativamente il delta tra prezzo assicurato e prezzo realizzato al momento del raccolto e influisce negativamente sulla performance della polizza.
Sul fronte aziende agricole, persiste la difficoltà a testare nuove polizze in un periodo storico come quello attuale, ove i significativi ritardi nell’erogazione dei contributi hanno avuto come diretta conseguenza la disaffezione degli imprenditori dal mercato delle assicurazioni agevolate.
Infine, il fatto che i contributi pubblici sono erogati in applicazione del Reg. (UE) n. 1408/2013 ovvero in regime de minimis, rende incerta la natura del contributo stesso.

Ciò nonostante, volendo agevolare l’implementazione di tale polizza e poiché è in pieno corso la procedura legislativa che porterà alla definizione della PAC post 2020, probabilmente, nella prossima riforma, si potrebbe finanziare la polizza ricavi a livello europeo e non più con finanziamenti nazionali.
Questo significativo cambiamento, connesso anche a una maggiore pubblicità delle novità legate a tale polizza sperimentale, a una maggiore fiducia da parte del mercato assicurativo e all’allargamento della platea dei beneficiari della polizza, potrebbero portare a una diffusione capillare di questa nuova possibilità di copertura dei rischi.

 

BIBLIOGRAFIA

Capitanio F. (2002), “Agricoltura e gestione del rischio: un confronto tra l’approccio tradizionale e l’uso di strumenti finanziari”, working paper n. 10/2002, Centro per la formazione in economia e politica dello sviluppo rurale, Portici.

De Angelis P., Nicoli P., Pennucci M., Tripodi A. (2011),Un modello attuariale per il Fair Value del rischio calamità naturali in agricolturaISMEA, Roma.

De Pasquale S., Di Gregorio D. (2006), “La gestione del rischio in agricoltura: l’uso degli strumenti assicurativi in Italia”; Aestimum, n.48.

Frascarelli A. (2016), Evoluzione della politica di gestione del rischio in agricoltura, Agriregionieuropa, anno 12, numero 47

Giannetti M. (2017), “La polizza ricavo, uno strumento innovativo per la gestione del rischio in agricoltura”, ASNACODI, Roma

ISMEA (2018), Rapporto sulla gestione del rischio in Italia – Stato dell’arte e scenari evolutivi per la stabilizzazione dei redditi in agricoltura, ISMEA, Roma.

Juvančič L., Cahill C. (2017), “Report on the workshop: Risk management in EU agriculture”, Future of CAP, Bruxelles.

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OECD (2011) “Managing risk in agriculture: policy assessment and design”, OECD Publishing, Paris.

Tangermann S. (2011), “Risk management in agriculture and the future of the EU’s Common Agricultural Policy”, ICTSD Programme on Agricultural Trade and Sustainable Development, Ginevra.

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Quanto conviene vocarsi all’agricoltura di precisione? //www.agronomoforestale.eu/index.php/quanto-conviene-vocarsi-allagricoltura-di-precisione/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=quanto-conviene-vocarsi-allagricoltura-di-precisione //www.agronomoforestale.eu/index.php/quanto-conviene-vocarsi-allagricoltura-di-precisione/#respond Tue, 19 Mar 2019 11:54:10 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=67230

Riccardo Di Giulio

La massimizzazione delle rese e la riduzione degli impatti ambientali sono effetti ormai comprovati dell’agricoltura di precisione (AdP), ma quello che molte imprese agricole oggi si chiedono è se il passaggio ad un’agricoltura precisa è anche economicamente vantaggioso oppure no.
A tale quesito ha tentato di rispondere la sezione economica del dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e ambientali dell’Università degli Studi di Perugia, con l’obiettivo di valutare economicamente l’agricoltura di precisione nei seminativi al fine di fornire un giudizio sulla convenienza da parte degli agricoltori a investire su tecnologie e conoscenze che possano rendere l’azienda più efficiente.


Costi e ricavi

Grazie a uno studio comparativo condotto su aziende maidicole situate in pianura padana con estensione tra i 50 e i 70 ettari, si è tentato definire in maniera teorica quali sono gli effetti dell’AdP sui costi e sui ricavi aziendali, pur consapevoli che i ricavi sono influenzati da variabili quali la natura dei terreni, l’areale di produzione e soprattutto il prezzo di vendita.

  

Tabella 1-L’effetto dell’AdP sui costi e sui ricavi

Per quanto riguarda i costi c’è da considerare l’effetto sul capitale fisso, sul capitale circolante e sul lavoro. Se da un lato l’AdP genera un aumento dei costi fissi dovuto essenzialmente al maggiore investimento iniziale, dall’altro essa riduce i costi variabili eliminando gli sprechi di input esterni.
C’è poi da considerare l’effetto sul costo d’uso delle macchine, infatti l’AdP riduce sensibilmente i costi legati al consumo di gasolio e lubrificante a fronte di un lieve aumento dei costi di riparazione, manutenzione e assicurazione dei macchinari.

 

Tabella 2 – Il confronto sui costi

Infine, l’effetto sul lavoro è forse l’elemento più cruciale della valutazione; chiaramente la guida satellitare consente di ridurre i tempi, e quindi i costi del lavoro, ma la manodopera aziendale deve essere più professionale e specializzata, il che quindi inciderà di più sul costo orario. Nonostante ciò va considerato che all’aumentare del livello di precisione, il costo del lavoro nel suo insieme diminuisce. Inoltre, l’aumento di professionalità deve riguardare anche l’imprenditore al quale in alcuni casi è richiesto un vero e proprio cambio di mentalità.

 

Tabella 3 – Il confronto tra i costi di manodopera

Sul piano dei ricavi si deve tener conto degli effetti positivi che l’AdP ha sulle rese e sulla qualità del prodotto, infatti ridurre le sovrapposizioni significa ridurre gli effetti depressivi legati alla doppia distribuzione di input esterni.
Inoltre, la dose variabile tende a ottimizzare le prestazioni della coltura in ogni punto del campo generando un aumento teorico delle rese.
Non bisogna poi tralasciare gli effetti indiretti che scaturiscono dalla maggiore conoscenza dello stato dei suoli e delle colture e che portano l’agricoltore a prendere decisioni più tempestive, aumentando l’efficienza aziendale.


3 livelli di precisione

Nel caso dei seminativi, gestire in maniera “precisa” può voler dire diverse cose, infatti l’AdP viene classificata su almeno tre livelli di utilizzazione:

  • un livello base che riguarda l’utilizzo di sistemi di guida assistita e automatica;
  • un livello intermedio che comprende la distribuzione a dose variabile e la mappatura delle produzioni;
  • un livello avanzato che consente di gestire il rateo variabile in maniera esperta aggiungendo alle informazioni derivanti dalle mappe di produzione altre informazioni quali mappature dei suoli, dati metereologici rilevati, dati di umidità del terreno rilevati, stato nutrizionale della coltura rilevato ecc.


4 aziende al confronto

Per avere un riscontro pratico di quanto teorizzato è stata condotta un’indagine diretta dei costi e dei ricavi di quattro aziende agricole innovative del Nord Italia che per comodità chiameremo azienda A, azienda B, azienda C e azienda D.

  • Azienda A: nessun livello di precisione (è stata analizzata per avere un riferimento con l’agricoltura convenzionale);
  • Azienda B: livello di precisione base associato all’agricoltura conservativa;
  • Azienda C: livello di precisione intermedio;
  • Azienda D: livello di precisione avanzato.

Come coltura di riferimento si è scelto il mais da granella e come superficie di riferimento 1 ha. La rilevazione di tutte le voci di costo è stata fatta in maniera analitica tramite i colloqui con gli imprenditori che ci hanno aiutato a ricostruire i costi dell’intero processo produttivo.
L’approccio metodologico utilizzato si basa su un foglio di calcolo che consente di rilevare tutti i costi e i ricavi connessi ad ogni fase del processo produttivo su 1 ha di superficie a mais, in questo modo i risultati non dipendono dalle dimensioni aziendali.

Il calcolo della quota di ammortamento (Q) della macchina (operatrice e motrice), utilizzata per svolgere una determinata operazione, è stato realizzato utilizzando la formula: =(Vi x T) / (N x H) dove Vi rappresenta il valore iniziale della macchina, T la durata dell’operazione, N la durata della macchina (espressa in anni) e H il numero di ore di utilizzo annuale della macchina.
In particolare, attraverso questa formula viene calcolato il costo orario di utilizzo della macchina, frutto del rapporto tra il valore iniziale della macchina Vi e la durata fisica della macchina (N x H). Il costo orario di utilizzo della macchina viene poi moltiplicato per il tempo di utilizzo della stessa per lo svolgimento di quella determinata operazione, al fine di calcolare la quota di ammortamento della macchina.

I ricavi della produzione sono relativi alla vendita del prodotto e a eventuali premi associati alla coltivazione.
Per quanto riguarda la vendita si è fatto riferimento alla resa media per ettaro realizzata dall’agricoltore e al prezzo medio percepito dall’agricoltore. Tra i premi associati alla coltivazione del mais è stato inserito il premio agroambientale presente nei diversi PSR regionali (dove previsto).

Il processo di rilevazione dei costi prevede innanzi tutto una ricognizione per ogni singola azienda delle diverse operazioni che ne contraddistinguono il processo produttivo.
Ovviamente la tipologia delle operazioni e il numero di queste possono variare a seconda degli areali di produzione, ma anche a seconda delle caratteristiche aziendali, tuttavia il modello utilizzato permette una schematizzazione del processo produttivo dando la possibilità di normalizzare i dati in un secondo momento.

All’interno del sistema di calcolo sono state predisposte delle schede distinte per ciascun’operazione del processo produttivo. In ciascuna scheda sono state riportate tutte le voci di costo che caratterizzano una determinata operazione colturale.
Per ogni singola operazione del processo produttivo si sono riportate tutte le voci di spesa relative a tutti gli input utilizzati, ossia ai fattori a logorio parziale (macchine, attrezzi, fabbricati, ecc.), ai fattori a logorio totale (prodotti fitosanitari, concimi, gasolio, lubrificante ecc.) e al lavoro. Inoltre, per ogni operazione si è proceduto alla rilevazione del tempo necessario per il suo svolgimento.

Per quanto riguarda i fattori a logorio parziale, e in particolar modo le macchine e gli attrezzi, oltre al calcolo della quota di ammortamento si è quantificato anche il costo di riparazione (inteso come il costo per la riparazione-sostituzione delle componenti meccaniche), il costo di assicurazione e il costo di manutenzione (inteso come il tempo dedicato alle operazioni di manutenzione della macchina).
Sono poi stati aggiunti i costi relativi alle imposte, agli interessi sul capitale di anticipazione all’uso del capitale fondiario, e ai servizi svolti da soggetti esterni (contoterzisti).

I costi relativi all’agricoltura di precisione sono stati conteggiati in maniera differente a seconda della loro tipologia.
Patendo dai risultati pubblicati su testi scientifici, è possibile calcolare la durata delle tecnologie come quella delle macchine: per quanto riguarda i kit per la guida automatica e assistita, i terminali, e le centraline meteo munite di sensori di umidità, essi sono stati ammortizzati considerando una vita utile di 5 anni. Sono poi stati aggiunti i costi relativi all’acquisto, alla gestione e all’utilizzo dei software, i costi relativi ai canoni per l’utilizzo della correzione Rtk e i costi sostenuti per le mappature dei suoli.

Ci sono poi una serie di costi legati all’agricoltura di precisione che non figurano come voci autonome poiché inscindibili da altri costi, ma che vengono comunque conteggiati. Per esempio, le mappe di produzione che vengono fornite dai contoterzisti nel momento della raccolta, il cui costo è quindi compreso nella prestazione del terzista.


Numeri alla mano

Dopo aver determinato i ricavi e tutte le diverse voci di costo si è proceduto al calcolo dei risultati. In particolare, si sono determinati i ricavi totali, i costi totali, i costi variabili, il reddito lordo e l’utile d’impresa.
I costi variabili rappresentano la somma dei costi legati ai fattori a logorio totale più i costi legati alla manodopera e agli interessi sul capitale di anticipazione. Il reddito lordo viene ottenuto dalla sottrazione dai ricavi dei costi variabili.
Invece, l’utile è ottenuto dalla sottrazione dai ricavi dei costi totali; tale voce individua la remunerazione per l’attività imprenditoriale.

 

Tabella 4 – I risultati dell’indagine

Mettendo a confronto i risultati grezzi dei conti economici del mais delle quattro aziende oggetto di studio si è rivelato difficile determinare il reale effetto dell’AdP sui costi e sui ricavi aziendali. Questo perché ogni azienda effettua delle diverse operazioni colturali con diverse macchine e distribuendo differenti input esterni e quindi la variabilità è troppo alta per poter imputare la differenza di risultati al solo effetto dell’AdP.
Si è dunque deciso di normalizzare i casi studio standardizzando alcuni parametri per ragionare con dati più omogenei.


Alcune considerazioni sui costi

Al termine dello studio, è possibile fare alcune importanti considerazioni sui i costi.

  1. al crescere del livello di AdP utilizzato aumentano i costi di ammortamento, riparazione e manutenzione delle macchine;
  2. all’aumentare del livello di AdP utilizzato diminuiscono i tempi di lavoro delle singole operazioni colturali e di conseguenza anche i costi per la manodopera impiegata;
  3. i consumi di gasolio e lubrificante dipendono più dalle caratteristiche delle macchine che dal livello di AdP utilizzato anche se in generale tendono a diminuire al diminuire dei tempi di lavoro delle singole operazioni colturali;
  4. i costi degli input esterni dipendono più dalle caratteristiche chimico-fisiche dei suoli che dal livello di precisione utilizzato;
  5. al crescere del livello di AdP utilizzato aumentano i costi a essa direttamente legati che in generale rappresentano tra lo 0,7% e il 2% dei costi totali dipendendo dal livello di precisione utilizzato.


Conviene davvero?

Questa prima fase della ricerca ci ha permesso di trarre un’importate conclusione, cioè che l’effetto dell’agricoltura di precisione sul conto economico è molto piccolo rispetto al complesso di effetti derivanti dalla gestione dell’impresa; per dirlo in termini metaforici si potrebbe paragonare a una “goccia nel mare”.
Anche se è sicuramente vero che l’agricoltura di precisione porta beneficio economico all’impresa, bisogna tener conto che questo beneficio diviene sensibile solamente se associato a corrette scelte imprenditoriali e a una corretta gestione della coltura.

Infine, per stabilire se il passaggio dall’agricoltura convenzionale all’agricoltura di precisione, nel settore dei seminativi, é economicamente vantaggioso sono state effettuate delle simulazioni.
Simulando il passaggio da parte dell’azienda A (agricoltura convenzionale) a un livello di precisione Intermedio (Modello Azienda C) tale azienda ridurrebbe i costi per la coltivazione del mais di 61,27€/ha aumentando il suo utile del 20%.
Simulandone invece il passaggio ad un livello di precisione base associato allo strip-till (Modello Azienda B) essa ridurrebbe i costi per la coltivazione del mais di 77,65€/ha aumentando il suo utile del 21%.

 

Tabella 5 – I risultati della simulazione

Concludendo si può quindi affermare che il passaggio all’agricoltura convenzionale all’agricoltura di precisione porta un beneficio economico di circa 60-80€/ha e che la sinergia tra un livello base di AdP e l’agricoltura conservativa porta a un vantaggio maggiore della sola AdP anche se di livello più avanzato.

 

NOTA METODOLOGICA
Lo studio comparativo è stato condotto su aziende maidicole situate in pianura padana con estensione tra i 50 e i 70 ettari.
La superficie di riferimento è stata riportata ad 1 ha per semplicità e per rendere comparabili le diverse aziende che hanno estensioni diverse.

Riccardo di Giulio è un giovane agronomo laureato all’Università degli Studi di Perugia e vincitore del premio di laurea 2018 della Fondazione “Mario Ravà” per la tesi di laurea magistrale “L’analisi economica dell’agricoltura di precisione nei seminativi”, da cui è tratto questo articolo.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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//www.agronomoforestale.eu/index.php/quanto-conviene-vocarsi-allagricoltura-di-precisione/feed/ 0
Agricoltura 4.0: tra innovazione e progresso tecnologico //www.agronomoforestale.eu/index.php/agricoltura-4-0-tra-innovazione-e-progresso-tecnologico/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=agricoltura-4-0-tra-innovazione-e-progresso-tecnologico //www.agronomoforestale.eu/index.php/agricoltura-4-0-tra-innovazione-e-progresso-tecnologico/#respond Thu, 14 Mar 2019 10:27:15 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=67223 La crescita della domanda alimentare mondiale sta stimolando un aumento della produzione di cibo, ma contemporaneamente si fa pressante la ricerca di una maggiore sostenibilità ambientale del settore primario.
In questo contesto, la produzione agricola è posta davanti a nuove sfide che possono trovare risposta nell’impiego sempre più massiccio e mirato dell’agricoltura di precisione (AdP), o agricoltura 4.0 come è stata recentemente chiamata.
Essa infatti, risponde alla necessità di intensificazione sostenibile portando in campo innovazione e progresso tecnologico.

3 livelli di precisione
Una premessa fondamentale riguarda la definizione di agricoltura di precisione.
Nel caso dei seminativi, sono diverse le definizioni che vengono accorpate attorno al concetto di agricoltura di precisione, ma queste possono sostanzialmente essere classificate in tre livelli di utilizzazione:

  1. primo livello, che fa riferimento all’utilizzo di sistemi di guida assistita e automatica;
  2. livello intermedio, che riguarda i casi di distribuzione a rateo variabile di input esterni (sementi, concimi, agrofarmaci) e di mappatura delle produzioni;
  3. livello evoluto, in cui si gestisce il rateo variabile in maniera esperta. In questo caso, le informazioni derivanti dalle mappe di produzione sono integrate da mappature dei suoli, stato nutrizionale della coltura, dati di umidità del terreno, dati metereologici, ecc.

I settori già innovati
Il progresso tecnologico sta continuando a fare passi da gigante e attualmente sono già stati ideati prototipi di trattori senza cabina in grado di svolgere le operazioni colturali senza la presenza di un operatore a bordo e completamente governabili da remoto.

Altre innovazioni di recente introduzione rivoluzioneranno il settore dei seminativi, come l’utilizzo in agricoltura di droni e sensori sempre più sofisticati NDRE (Normalized Difference Red Edge), questi sensori grazie alla tecnologia infrarossi riescono a fornire una misura in tempo reale dello stato azotato della coltura senza ricorrere all’utilizzo di mappe di produzione.

È però doveroso menzionare che i progressi più impressionanti in materia di AdP si stanno facendo nel settore della viticultura.
In questo settore si è già sperimentato l’utilizzo di droni per le mappature di vigore e l’utilizzo di veri e proprio robot in grado di raccogliere dati a differenti livelli.
L’Istituto Superior de Agronomia di Lisbona sta portando avanti il progetto VINBOT per la realizzazione di prototipi di Robot in grado di catturare ed elaborare immagini 3D grazie ad una serie di sensori specifici.

Un altro campo in cui la tecnologia sta rivoluzionando le tecniche tradizionale è quello della zootecnia (specialmente nel settore dei bovini da latte).

Un sguardo altrove
Su scala globale, i Paesi in via di sviluppo sono quelli in cui la crescita della popolazione e dei redditi è più sensibile e per questo dovranno far fronte all’imminente necessità di produrre di più.
Inoltre, in questi Paesi il divario tra ricchi e poveri e tra regioni ricche e regioni povere è spesso più ampio che nei cosiddetti Paesi industrializzati.

Tra i Paesi in via di sviluppo, Argentina, Cina, India, Malesia e altri hanno iniziato ad adottare l’AdP specialmente nelle aziende agricole adibite alla ricerca.
Per fare alcuni esempi :
• in India alcune piantagioni di tè stanno sperimentando l’applicazione di software GIS
• in Malesia si sta espandendo la tecnica del rateo variabile nella fertilizzazione del caucciù
• in Brasile e alle Mauritius sono in corso sperimentazioni sull’applicazione della agricoltura di precisione per quanto riguarda la canna da zucchero
• in Messico, Brasile e soprattutto in Argentina vengono utilizzate le mappe di raccolta per i cereali dove nel 2001 circa il 4% dei cereali veniva già raccolto mappando le produzioni.

Alla portata di tutti
Uno degli sviluppi più interessanti dell’AdP in questi Paesi riguarda un aspetto spesso sottovalutato ovvero l’introduzione di tecnologie alla portata di tutti e su piccola scala. Per esempio, attrezzature SPAD o LCC sono semplici portatili e poco costose ma permettono di valutare lo stato del riso e di altri cereali in termini di contenuto di azoto e se associati all’utilizzo di software GIS possono rappresentare una forma di AdP alla portata di tutti.

Conclusione
Gli scenari proposti evidenziano il ruolo fondamentale dell’agricoltura di precisione nell’incrementare lo sviluppo sostenibile e la sicurezza alimentare mondiale.
Il progresso tecnologico, caratteristica essenziale della precision farming, è molto rapido e sta portando al perfezionamento degli strumenti che ne consentono l’applicazione.
Attualmente i sensori sono in grado di determinare le proprietà dei suoli, lo stato di salute delle colture e le condizioni climatiche assicurando il monitoraggio a livello di campo, ma probabilmente nei prossimi anni i sensori consentiranno un’analisi ottica molto più dettagliata arrivando a investigare lo stato di salute di ogni singola foglia.

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Progetto SLOPE: selvicoltura di precisione //www.agronomoforestale.eu/index.php/progetto-slope-selvicoltura-di-precisione/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=progetto-slope-selvicoltura-di-precisione //www.agronomoforestale.eu/index.php/progetto-slope-selvicoltura-di-precisione/#respond Sun, 08 Jul 2018 11:36:31 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=66975 La silvicoltura in Italia è un’attività che si fa in pendio, “slope” in inglese.
Ciò si traduce in difficoltà d’accesso al bosco, con conseguente poca meccanizzazione e minore competitività della silvicoltura del Belpaese, se confrontata a quella nordeuropea.
Con questa riflessione inizia il progetto SLOPE, avviato dall’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree (Ivalsa) del Cnr, con la Fondazione Graphitech di Trento, specializzata in geo-informatica, e coinvolgendo sia partner europei che due aziende italiane, la Greifenberg Teleferiche e Flyby srl.
Ne abbiamo parlato con Gianni Picchi, ricercatore CNR- IVALSA e coordinatore del progetto.

Quali criticità vi siete proposti di risolvere?
Il progetto nasce nel 2012, con un bando per sviluppare delle macchine intelligenti per migliorare l’agricoltura forestale. Ci siamo chiesti se fosse possibile sviluppare un sistema che aiutasse nella stima delle cubature e nella valutazione della qualità del legname.
Solo quest’attività valutativa, infatti, è estremamente onerosa in termini di tempo necessario ed è svolta con un doppio passaggio: sia da chi vende che da chi acquista il legname.
In termini pratici, solo l’attività di stima incide tra i 6 e i 10 euro al metro cubo sul prezzo finale del legname (stima dei tecnici della Provincia di Trento), ossia oltre il 10% per il legname di buona qualità il cui prezzo finale si aggira sugli 80-85 euro al metro cubo.
Se poi si considera che sulle Alpi e sugli Appennini si opera in terreni scoscesi, dove sarebbe impossibile fare entrare grossi macchinari industriali senza effetti altamente distruttivi e che, rispetto ai Paesi scandinavi, in Italia si pratica la selvicoltura naturalistica che preleva solo le piante mature e lasciando sul posto quelle giovani, è evidente che abbiamo un problema di competitività del sistema.

Che soluzioni avete trovato?
Abbiamo sviluppato un processore forestale intelligente con cui, grazie alla tecnologia RFID (Radio-Frequency IDentification), è possibile etichettare il legname ben prima che arrivi in segheria, dove oggi è una tecnologia già impiegata.
Questa etichettatura consente di valutare la qualità del legname già nel bosco e stoccarlo a bordo strada separando le qualità: in questo modo i lotti possono essere venduti a segherie o fabbriche specializzate che magari vogliono una sola qualità di legname.
Non solo, l’efficienza del sistema si riverbera anche sui costi di abbattimento, selezionando solo i fusti che interessano o che sono richiesto dal mercato, riduce i costi di trasporto e anche quelli di stoccaggio.

Le fasi del processo

Un progetto che prevede la mappatura del bosco…
Oggi la mappatura di un bosco si fa con le ricognizioni aeree, che offrono stime ancora poco raffinate.
Noi siamo partiti dall’inventario forestale eseguito dalla Provincia di Trento, integrandolo con le immagini satellitari e quelle effettuate con spettrofotometri installati su droni sia con telecamere che con visori a infrarosso.
Poi abbiamo costruito un modello tridimensionale della copertura arborea e dell’orografia del terreno e anche una stima della massa legnosa, utilizzando anche i dati raccolti con il sistema LIDAR, un laser scanner impiegato sottochioma che riesce a ricostruire i tronchi ancora in piedi, geo-referenziando il tutto.
Inserendo i dati nel modello informatico è possibile conoscere il volume complessivo del legname e il suo valore teorico.

Laser Scanner LIDAR

Quindi è possibile valutare la singola pianta …
È possibile eseguire la rastremazione del singolo tronco e procedere con la stima del valore della pianta in piedi e la valutazione degli assortimenti, assegnando a ogni albero un’etichetta con un codice univoco che collegata all’albero riprodotto nel database.
Il selvicoltore, quindi, marca le piante con sistemi visivi e con etichette elettroniche, anche se è pensabile che in un prossimo futuro si possa fare la “martellata” direttamente sul software.
Già in questa fase si può simulare quale taglio ottimale ottenere con ogni fusto, magari preferendo una maggiore qualità oppure con tagli per massimizzare la quantità.
E con la tecnologia RFID, con cui è stato etichettato il tronco, è sufficiente avere con sé uno smartphone per associare la pianta digitale del nostro modello, con la pianta reale.


Fin qui la pianificazione, però resta ancora la fase di taglio.

L’ingegnerizzazione del bosco consente di ottimizzare moltissime fasi del processo.
Abbiamo un tronco riconoscibile, di cui conosciamo tutti i dati “in piedi”: localizzazione, dimensioni, tipologia, ecc.
La ricerca è quindi proseguita sviluppando dei prototipi di macchine da taglio.
In questa fase sperimentale abbiamo testato diversi tipi di sensori, fino a 16, con caratteristiche, costi, capacità di resistere agli impatti molto diversa.

I sensori sulla tagliatrice

Abbiamo testato telecamere iperspettrali sensibili a varie bande, tra cui l’infrarosso vicino (NIR), sensori ottici e sensori sonori per avere dati utili alla catalogazione della qualità, per avere indicazioni di taglio del tronco così da togliere eventuali marciumi.
Abbiamo installato anche sensori di taglio sulla motosega, per valutare lo sforzo e stimare la durezza del legno. Abbiamo, infine, provato un sensore che dà l’indice di ramosità del tronco.
Una mole di dati notevole di dati utili per trasformare il fusto nel tronco tagliato con le caratteristiche qualitative desiderate.
Finito il taglio, la sega automatizzata applica una seconda etichetta al tronco per tracciare e conservare le informazioni raccolte in questa fase (marciumi, numero di rami, consistenza del legno, ecc.) mandandole alla centrale operativa.
Dalla centrale si può già vendere il legname di cui conosco praticamente tutto, direttamente a bordo strada. Non sono più necessarie tutte le operazioni di assortimentazione in bosco o in piazzale, poiché il legname è già posto in cataste di omogene.

Progettare il lavoro in bosco

Resta il problema di far uscire la legna dal bosco
La mappatura consente anche di pianificare le teleferiche forestali. Conosciamo il profilo del suolo e il profilo del bosco, coi dati che abbiamo possiamo farci aiutare dal sistema a progettare le teleferiche.
Davanti al pc posso progettare il numero di scarpe che voglio per ottimizzare il trasporto del legname, magari massimizzando le quantità raggiungibili, oppure concentrando le linee là dove il legno ha una qualità maggiore o una tipologia interessante per il cliente.

Un grande valore è la tracciabilità dell’intera filiera
Sì, oltre l’ottimizzazione dei costi e della possibilità di vendere meglio il legname, questo sistema garantisce la certezza del tracciamento del singolo tronco dal bosco fino a diventare un asse e fino a diventare mobile.
Si tratta di dare ulteriore valore al legname per chi cerca la filiera corta, o vuole legname di provenienza legale garantita, o compra legno da foreste sostenibili e via dicendo.

Dalle vostre valutazione si possono effettivamente ridurre i costi?
Abbiamo realizzato delle stime estremamente prudenziali e nei nostri calcoli abbiamo sempre preferito scegliere le valutazioni più svantaggiose per SLOPE, assegnando poco o nessun valore a quelle attività che generano un beneficio, ma che sono difficilmente quantificabili e poco oggettive.
Nonostante ciò, il costo al metro cubo si riduce di 10€ al metro cubo, cioè da 80 a 70 euro, valutate su un bosco in Provincia di Trento.
Voglio ribadire, però che le soluzioni trovate facilitano, organizzano, migliorano tutte le fasi e quindi, anche se avessimo riscontrato una parità di costo tra i due sistemi, il vantaggio di SLOPE è senza dubbio notevole.

I costi con il sistema tradizionale

I costi con il sistema SLOPE


La proprietà dei boschi è parcellizzata. Voi proponete un sistema che, a prima vista, sembra adatta a grandi aziende o chi ha vaste superfici …

Noi proponiamo uno strumento tecnico e come tale va visto nelle singole situazioni.
Così com’è stato pensato giò va bene per un ente pubblico, penso alla Provincia di Trento, oppure a grandi privati come la Magnifica Comunità della Val di Fiemme.
Il piccolo privato, invece, dovrebbe consorziarsi o aggregarsi o vendere a grandi clienti. Indubbiamente serve un cambio di approccio, ma se i grandi committenti iniziano a impiegare questo sistema è plausibile che i piccoli si adeguino vedendone i positivi riscontri.

È un sistema valido anche per altri ambienti e altre tipologie vegetali?
Sì, senz’altro. La sperimentazione è stata fatta sulle Alpi e con l’abete rosso (Picea abies (L.) H.Karst., 1881) perché potevamo confrontare i dati storici con quelli della nuova proposta, ma il modello sviluppato si può applicare anche altrove.
Probabilmente ci potrà essere la necessità di qualche adattamento, per esempio alcuni sensori lavorano meglio con le conifere rispetto alle latifoglie, ma nulla che invalidi il sistema.
Forse la difficoltà maggiore è data dal fatto che in Appennino c’è meno fustaia, meno coltivazione forestale a fini industriali, ma rendendo più efficiente e competitiva la silvicoltura potrebbe far cambiare anche questo aspetto.


L’analisi dei costi: SLOPE System Techno- economic Evaluation Report III

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