Primo Piano – Coltiv@ la Professione //www.agronomoforestale.eu agronomi e forestali Fri, 09 Aug 2024 14:28:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.3.5 Il caso dell’urbanistica di genere //www.agronomoforestale.eu/index.php/urbanistica-verde-genere/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=urbanistica-verde-genere //www.agronomoforestale.eu/index.php/urbanistica-verde-genere/#respond Fri, 30 Aug 2024 06:51:57 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68549 Come si progetta una città inclusiva? E, nello specifico, è pensabile lavorare affinché ci sia un’inclusività legata al genere?
Finalmente, anche a livello politico e non solo per le persone comuni, sta emergendo la necessità di far crescere la qualità della vita nelle città, rendendole accoglienti per tutti i bisogni e per tutte le tipologie di cittadini. In questo senso, come dottori agronomi e dottori forestali che si occupano di progettare gli spazi verdi, abbiamo proposto numerose best practice che hanno dimostrato inventiva e raggiunto apprezzabili successi.

Al lavoro da 40 anni
Dagli anni Ottanta, la Facoltà di Agraria di Bologna ha introdotto la paesaggistica dei parchi e giardini nel percorso di formazione dei dottori agronomi e forestali. Sono passati circa 40 anni, ma in questi decenni come professionisti abbiamo ottenuto meno visibilità di quanto meritiamo nelle attività di progettazione dello spazio urbano della città.

Si tratta di attività che, partendo dalle conoscenze tecniche, quando applicate con competenza definiscono un indirizzo politico, di guida alla pianificazione urbana delle città. Anche se sottotraccia, però, in questi quattro decenni abbiamo saputo passare da una progettazione a piccola scala dei giardini a quella di area vasta a livello territoriale.

La prossima sfida

Progettare una “città verde” inclusiva e rispettosa del genere è la prossima sfida che ci vede protagonisti.

Le città, infatti, vivono solo se offrono spazi pubblici, quali giardini, parchi, alberate stradali, piazze (ricche di vegetazione), che permettono di essere fruiti in tutta sicurezza da tutti, anche dalle fasce più fragili. Accanto alle conoscenze tecniche, più che necessarie, deve esserci l’analisi di come le cittadine e i cittadini, donne, uomini, anziani, bambine e bambini vivono la città, di come si spostano, di come creano e intessono relazioni. Ne consegue un legame forte tra la progettazione delle infrastrutture verdi e il tema viabilità e mobilità pedonale e ciclabile all’interno e all’esterno degli spazi verdi pubblici.

Le donne, per esempio, se da un lato utilizzano maggiormente lo spazio urbano pubblico, dall’altro risultano particolarmente attente alla sicurezza dei luoghi. Ecco che queste due semplici constatazioni possono, anzi devono, diventare un driver nella realizzazione delle infrastrutture verdi urbane a misura di tutti.

Dato statistici e analisi di contesto

Quando si parla di urbanistica di genere, si parla di un approccio alla pianificazione urbana che deve tenere conto delle differenze nello sviluppo e gestione degli spazi aperti urbani, con scelte tecniche che portino a promuovere l’uguaglianza tra uomini e donne.

Sono numerosi gli studi fatti in tante città europee, come Barcellona, Oslo, Vienna, Stoccolma, ma anche italiane, come Milano e Bologna che, partendo da dati statistici raccolti tramite interviste e questionari e dall’analisi del contesto hanno portato allo sviluppo di progetti urbanistici che contribuiscono a ridurre le diseguaglianze, con una particolare attenzione alla sicurezza delle donne e alla prevenzione della violenza di genere.

Questi studi hanno migliorato la comprensione di come le donne si muovono nelle città, quali spazi attraversano nella quotidianità e quali elementi le fanno sentire maggiormente sicure. La conseguenza di questi studi è che si può progettare spazi verdi offrendo soddisfazione a bisogni specifici e facendo crescerne la fruizione.

Mobilità

Le donne e gli uomini si muovono nelle città in modo differente. Sono ancora una volta i dati (Bloomberg NEF) che ci indicano come molte città europee stanno lavorando per modificare la mobilità e i trasporti, per avere città meno inquinate e ridurre il traffico, ma anche per renderle più inclusive e attente alla mobilità di genere.

Mentre gli uomini si muovono maggiormente in auto e in modo lineare, lungo le arterie stradali principali, la mobilità al femminile è meno diretta: le donne usano più spesso i mezzi pubblici o la bicicletta e camminano più spesso, attraversano la città per tratti spesso più brevi, più frequenti nella giornata e con un maggior numero di soste. Uno dei motivi è che le donne, oltre al lavoro, si spostano per portare i bambini e le bambine a scuola, per riprenderli, per fare la spesa, per andare al parco, e quindi hanno esigenze più complesse.

Già oggi, città come Parigi hanno sposato il concetto della “città dei 15 minuti”, a piedi, in bicicletta, con i mezzi pubblici per muoversi nella città. E se Parigi, così come le città citate prima, ragionano su percorsi ciclopedonali che attraversano la città, le nostre città italiane spesso medio/piccole possono davvero lavorare su un ridisegno della mobilità dolce a favore della uguaglianza di genere. Una città che si muove avendo a cuore le esigenze delle donne, è una città che pensa alle esigenze di tutti.

La qualità urbanistica con gli spazi verdi

Per un’urbanistica inclusiva, in una città dove si vive e si “respira” bene, si deve pianificare, progettare e prendersi cura degli spazi verdi, dai piccoli giardini ai grandi parchi, dalle strade alberate, alle piazze urbane.
Le piazze devono cambiare volto, avere un’alta presenza di vegetazione e spazi interconnessi che si sviluppino in una rete ecologica continua, integrata con percorsi ciclopedonali che conducono ai luoghi di socialità, di lavoro, delle scuole, delle aree commerciali, realizzando un tessuto urbano armonioso.

Dottori agronomi e dottori forestali, nella progettazione degli spazi verdi, sanno scegliere correttamente le specie maggiormente idonee al contesto: ci sono alberi in grado di fare ombra e di sopportare periodi lunghi di siccità, anche invernale; oppure piante a crescita rapida, se dobbiamo progettare spazi dove non abbiamo vegetazione e dove le isole di calore sono elementi di malessere per le persone; ci sono alberi in grado di sopportare le piogge intense, le così dette “bombe d’acqua”. Senza trascurare i progetti di depavimentazione a favore dell’inserimento di vegetazione e drenaggi urbani o rain garden.

Ora però serve un passaggio di scala della progettazione, dal singolo giardino o parco a quella urbana della intera città. L’obiettivo finale deve portare a realizzare città verdi, continue quasi che, se le vedessimo dall’alto, sparirebbero visivamente le aree edificate e la viabilità diventerebbe una trama continua di un mantello verde.
Ecco che la nuova scala di progettazione deve confrontarsi con la distribuzione nello spazio delle masse di alberi, arbusti, prati, aree di sosta, aree ludiche e sportive e con il loro disegno.

Sicurezza di genere

Non è sufficiente che gli spazi verdi siano connessi tra loro. Per incrementarne l’uso è necessario avere luoghi vissuti nella loro pienezza, che devono essere percepiti come sicuri a tutte le ore del giorno e della notte.

Ne consegue che, soddisfando la richiesta di sicurezza e di inclusione dello spazio pubblico manifestato dalle donne, si fa crescere il senso di sicurezza in tutta la cittadinanza, al di là del genere e della fascia di età. E sì avvia un effetto virtuoso sullo spazio pubblico, che diventa vitale e si trasforma in luogo della collettività, accrescendo l’attrattività, che origina una maggiore sicurezza, che ne incentiva ulteriormente l’utilizzo.

Per questo motivo, affrontare la sicurezza di genere nei progetti urbani pubblici che includono i parchi, le piazze, i giardini richiede un approccio olistico.

Nella progettazione bisogna immaginare luoghi sempre illuminati, anche di notte; lungo i percorsi, nelle aree di sosta e gioco, si dovrà fare attenzione a massimizzare la visibilità per agevolare la “sorveglianza naturale”.
Questo significa, per i dottori agronomi e dottori forestali, progettare spazi aperti e “trasparenti” che permettano alle persone di essere viste e a loro volta di vedere oltre il luogo di sosta o di percorrenza. Ecco che all’adeguata scelta delle specie e alla distribuzione delle masse arbustive e delle strutture aggiunge una variabile: non basta che siano piante adatte a resistere alle caratteristiche del posto e alle sfide del cambiamento climatico in atto, ma si deve evitare che possano creare luoghi interclusi e bui.

Equità sociale

Una città verde, inclusiva, attenta al genere femminile, agli anziani e ai bambini e alle bambine è anche una città equa, dove il verde diviene motore di armonizzazione sociale.

Le città vanno ridisegnate, portando aree verdi diffuse in tutti i quartieri, poiché la presenza di parchi e giardini, piste ciclopedonali, alberate stradali non siano un privilegio di alcune fasce sociali.

Le parti delle città dove il verde è maggiormente diffuso sono le aree anche più costose come valori immobiliari, e che negli anni hanno creato differenze sociali portando le diverse zone delle città a non dialogare tra loro. Nelle ‘nuove’ città la regola 3-30-300 (3 alberi che si vedono dalla finestra di ogni casa, 30% di copertura arborea in ogni quartiere e non più di 300 m per raggiungere un’area verde dalla propria abitazione) dev’essere ubiquitaria, perché una città verde significa vita e salute.

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Vendemmia 2024: Italia divisa in due, anno difficile e complesso //www.agronomoforestale.eu/index.php/vendemmia-2024-italia-divisa-in-due-anno-difficile-e-complesso/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=vendemmia-2024-italia-divisa-in-due-anno-difficile-e-complesso //www.agronomoforestale.eu/index.php/vendemmia-2024-italia-divisa-in-due-anno-difficile-e-complesso/#respond Sat, 24 Aug 2024 07:16:05 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68544 In molte regioni del sud è partita la vendemmia 2024 con la raccolta dei primi grappoli delle varietà precoci e delle basi spumante in Sicilia, Puglia e Lombardia (Franciacorta) e terminerà alla fine di ottobre/inizio novembre, con le varietà più tardive come l’aglianico tra Basilicata e Campania. Il dato peculiare di quest’anno, però è la divisione (quasi) netta tra sud e nord.

Il Centro-Sud fa i conti con un’importante siccità che sta colpendo maggiormente la Sicilia e le regioni più meridionali. A nord, invece, a preoccupare sono la peronospora e gli eccessi di pioggia.

Il dato rilevante quindi è che, per il secondo anno consecutivo, l’avverso andamento meteoclimatico sottolinea l’imprescindibile ruolo della gestione agronomica del vigneto, intesa come principale strategia per ottenere comunque produzioni che rispecchino il sito specifico e il mantenimento della qualità delle uve.

 

Oggi a me, domani a te

Il destino dell’Italia vitivinicola 2024 sembra inverso, rispetto a quanto accaduto nel 2023.

Lo scorso anno, in seguito agli eccessi di pioggia avuti in primavera e inizio estate, al Centro-Sud si parlava di emergenza peronospora (Plasmopara viticola). Questa fitopatia ha danneggiato migliaia di ettari di vigneto favorendo le condizioni, assieme alla successiva siccità estiva, per avere una tra le più scarse annate di sempre dal punto di vista quantitativo.

Al contrario, al Nord si viveva una relativa tranquillità, con una scarsa diffusione di fitopatie e con diffusi episodi di maltempo nei mesi pre-raccolta, che hanno consentito di ottenere un buon risultato.

Oggi, le parti si sono invertite. Il nord Italia si trova a combattere contro la peronospora e con eccessi di pioggia, mentre al sud la peronospora è un brutto ricordo, ma di fanno i conti con la siccità.

Insomma, un altro anno impegnativo e difficile per la viticoltura italiana, segnato dall’andamento climatico anomalo che, ancora una volta, detta i tempi e mette a dura prova i tecnici e gli agricoltori.

La gestione agronomica del vigneto

Chi lavora in agricoltura sa, che ogni anno è diverso e che la ‘variabile meteo’ aggiunge complessità alla gestione tecnica dei vigneti, mai costante e mai determinata.

Il vino è una materia viva che nasce in vigna e, nella vigna, vede oggi i maggiori problemi e le maggiori variabili legate al meteo, che ne condizionano la qualità ed il raggiungimento dell’obbiettivo enologico di successo.

In questi momenti così difficili, per poter portare a casa il miglior risultato possibile, c’è necessita di conoscenza tecnica, determinazione e caparbietà.

Sono determinanti la gestione agronomica del vigneto, la tempestività negli interventi, la difesa fitosanitaria mirata e puntuale, le tecniche vitivinicole appropriate, la conoscenza delle condizioni pedo-climatiche del vigneto e della specificità dei vitigni per portare a casa il risultato, avere delle produzioni che rispecchino il sito specifico e puntare ad elevare la qualità delle uve.

Per contrastare questi repentini cambi climatici, risulta sempre più importante curare l’aspetto tecnico professionale, passando dall’innovazione e alle tecniche gestionali del vigneto, alla conoscenza delle specificità dei prodotti per la difesa fino a giungere a interventi ‘chirurgici’ e di precisione.

 

Il vino si fa in vigna

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una crescita culturale della viticoltura, volta sia all’attenzione alle condizioni climatiche come alla riduzione degli impatti sull’ambientali e sulla vita dei consumatori.

Tutto questo deve far crescere la centralità della viticoltura sul piano strategico aziendale e nazionale, stando vicino alle tematiche del lavoro in vigna.

Se negli anni il vino italiano ha conquistato nuovi consumatori e il plauso e il riconoscimento di eccellenza, oggi più che mai ha necessità di investire sulla conoscenza in vigna “sito specifico”, sulla ricerca e sulle innovazioni tecnologiche del processo produttivo legato ai cambiamenti climatici, sulla riduzione degli impatti sull’ambiente e sui consumatori.

 

È un processo che inevitabilmente si avvia nella vigna per trovare il naturale proseguimento in cantina. Fortunatamente questo processo è già in atto e molte aziende di eccellenza del vino con successo si affidano a tecnici agronomi specializzati in viticoltura per seguire i vigneti e raggiungere dei prefissati obbiettivi enologici.

Capacità e competenze, alter ego di produzione e qualità

Questo 2024 ha dimostrato ulteriormente, se mai ce ne fosse stato bisogno, della necessità di impegnarsi valorizzando l’aspetto tecnico e professionale nella gestione della vigna, nella difesa fitosanitaria, fino alla scelta del momento per la raccolta dei grappoli e della lavorazione dei mosti in cantina. Solo con capacità e competenze si possono fare le scelte giuste per limitare perdite di produzioni e garantire la qualità che tutto il mondo riconosce, apprezza e si aspetta dai vini italiani.

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Le produzioni vegetali e il ruolo dei dottori agronomi e dei dottori forestali //www.agronomoforestale.eu/index.php/le-produzioni-vegetali-e-il-ruolo-dei-dottori-agronomi-e-dei-dottori-forestali/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=le-produzioni-vegetali-e-il-ruolo-dei-dottori-agronomi-e-dei-dottori-forestali //www.agronomoforestale.eu/index.php/le-produzioni-vegetali-e-il-ruolo-dei-dottori-agronomi-e-dei-dottori-forestali/#respond Sat, 01 Jun 2024 07:41:25 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68524 Le produzioni vegetali rappresentano un settore fondamentale dell’agricoltura, che comprende la coltivazione di piante per il consumo umano, animale e per altri usi industriali. Queste produzioni includono colture come cereali, legumi, frutta, verdura, piante da olio, piante da fibra e colture speciali come quelle officinali e aromatiche.

Esse influenzano:

  • sicurezza alimentare: forniscono cibo, garantendo l’accesso a una dieta equilibrata e nutriente
  • economia rurale: creano opportunità di lavoro e reddito nelle aree rurali, contribuendo allo sviluppo economico e sociale delle comunità agricole
  • ambiente: le pratiche agricole sostenibili, promosse dai dottori agronomi e dai dottori forestali, aiutano a conservare le risorse naturali, ridurre l’impatto ambientale e combattere il cambiamento climatico.

7 aree di competenza dei dottori agronomi e dottori forestali
Agronomi e forestali svolgono un ruolo cruciale nelle produzioni vegetali, promuovendo pratiche agricole che sono sostenibili, efficienti e sicure. La loro competenza contribuisce a migliorare la produttività agricola, la qualità dei prodotti e la sostenibilità ambientale, garantendo benefici a lungo termine per l’economia e la società.

1. analisi del suolo e del territorio:

  • valutazione della fertilità: eseguono analisi del suolo per determinare i nutrienti disponibili e raccomandano interventi per migliorare la fertilità del terreno.
  • gestione del suolo: consigliano pratiche per prevenire l’erosione, migliorare la struttura del suolo e aumentare la capacità di ritenzione idrica.

2. pianificazione delle colture:

  • scelta delle colture: aiutano nella selezione delle colture più adatte alle condizioni climatiche e pedologiche del territorio.
  • rotazione delle colture: pianificano rotazioni colturali per migliorare la salute del suolo e ridurre l’incidenza di parassiti e malattie.

3. gestione delle risorse idriche:

  • irrigazione efficiente: progettano e implementano sistemi di irrigazione che ottimizzano l’uso dell’acqua, come l’irrigazione a goccia.
  • conservazione dell’acqua: promuovono tecniche di agricoltura conservativa per mantenere l’umidità del suolo e ridurre il fabbisogno idrico.

4. controllo delle malattie e dei parassiti:

  • gestione integrata dei parassiti (IPM): implementano strategie per il controllo dei parassiti che combinano metodi biologici, fisici e chimici in modo sostenibile.
  • uso di prodotti fitofarmaci: raccomandano l’uso responsabile e mirato di fitofarmaci per ridurre l’impatto ambientale e garantire la sicurezza alimentare.

5. miglioramento genetico e selezione delle varietà:

  • sviluppo di nuove varietà: collaborano con istituti di ricerca per sviluppare e introdurre varietà di piante più resistenti alle malattie, con maggiore resa e adattabilità a diverse condizioni climatiche.
  • conservazione delle risorse genetiche: promuovono la conservazione delle varietà locali e delle specie tradizionali per mantenere la biodiversità agricola.

6. sostenibilità e innovazione:

  • agricoltura di precisione: utilizzano tecnologie avanzate come i droni, i sensori e i sistemi GIS per monitorare e gestire le colture in modo preciso e sostenibile.
  • pratiche sostenibili: promuovono pratiche agricole sostenibili come l’agricoltura biologica e la conservazione delle risorse naturali.

7. formazione e consulenza:

  • supporto agli agricoltori: forniscono consulenza tecnica agli impresari agricoli su pratiche di coltivazione, gestione delle risorse e strategie di mercato.
  • educazione e sensibilizzazione: organizzano corsi di formazione e campagne di sensibilizzazione per diffondere conoscenze e innovazioni nel settore agricolo.

 

Il peso dell’agricoltura nell’economia italiana
Il settore agricolo e agroalimentare in Italia ha un ruolo significativo nell’economia nazionale. Nel 2023, il comparto agroalimentare rappresentava circa il 15% del PIL italiano, con il settore agricolo da solo che contribuiva per circa il 2%.

1,1 milioni di aziende agricole
L’Italia conta circa 1,1 milioni di aziende agricole, che coprono indicativamente 12,6 milioni di ettari della superficie agricola del paese.

50% di terreni agricoli
Oltre il 50% della superficie totale adibita a uso agricolo è montuosa o soggetta a vincoli naturali.

53% di popolazione rurale
Il 53% della popolazione italiana vive in zone rurali o intermedie e il settore agricolo e forestale costituiscono fattori economici importanti.

Il valore aggiunto complessivo della filiera agroalimentare nel 2022 ha raggiunto i 64 miliardi di euro, di cui 37,4 miliardi derivanti dalla produzione agricola e 26,7 miliardi dall’industria alimentare. Se si considera anche la distribuzione e la ristorazione, il peso del settore agroalimentare sul PIL sale al 7,7%, e includendo i servizi di trasporto, logistica e intermediazione necessari per portare i prodotti dal campo alla tavola, la stima supera il 15,2%.
L’Italia è un leader nella produzione di vari prodotti agricoli in Europa. Ad esempio, detiene una quota del 37% nella produzione di vino e del 33% nella produzione di olio d’oliva nell’UE. È anche un importante produttore di frutta, coprendo il 18% della produzione dell’UE.

 

Nonostante la rilevanza del settore, l’agricoltura italiana affronta diverse sfide strutturali, tra cui la frammentazione delle aziende agricole, la scarsa presenza di giovani imprenditori e problemi di accesso alla terra, con valori fondiari molto elevati rispetto ad altri Paesi europei.
Inoltre, il settore deve affrontare le incertezze climatiche e la volatilità dei prezzi, che influenzano negativamente la produzione e il valore aggiunto.

Produzione agricola per settore
Quando si parla di valore della produzione agricola si sommano i valori dei prodotti agricoli e quelli zootecnici, escludendo la produzione di servizi in agricoltura.
Circa la metà del valore della produzione complessiva in UE proviene dalle colture, tra le quali gli ortaggi, le piante orticole e i cereali erano le colture più pregiate, circa due quinti da animali e da prodotti di origine animale. Di questi ultimi, la maggior parte del valore è frutto dal solo da latte e dall’allevamento suinicolo.
I contributi e la quota di prodotti animali e vegetali differiscono notevolmente da uno Stato membro all’altro e tra di essi, riflettendo le differenze nei volumi prodotti, nei prezzi percepiti, nonché nel mix di colture coltivate, animali allevati e prodotti animali raccolti.

Produzione agricola per settore in Italia.
Valore della produzione ai prezzi base nel 2023 (milioni di euro)

La suddivisione della produzione agricola

 

La suddivisione della produzione vegetale

 

Le percentuali della produzione zootecnica nazionale

Fonte: EUROSTAT

In conclusione
I dottori agronomi e i dottori forestali hanno una visione olistica e competenze multidisciplinari essenziali per affrontare sfide ambientali ed agricole del nostro tempo.
Attraverso l’integrazione di diverse competenze e la collaborazione con altri professionisti, essi sono dei team leader in grado di sviluppare e promuovere pratiche agricole e forestali sostenibili, contribuendo alla tutela dell’ambiente e alla produzione efficiente e sicura alimentare.

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Ribaltare il paradigma //www.agronomoforestale.eu/index.php/ribaltare-il-paradigma/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=ribaltare-il-paradigma //www.agronomoforestale.eu/index.php/ribaltare-il-paradigma/#respond Fri, 24 May 2024 10:25:52 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68537 A ridosso del mare, tra le colline coltivate, le pinete litoranee e la macchia mediterranea, i bianchi mantelli dei bovini maremmani tratteggiano il paesaggio agricolo. Siamo ad Alberese , nella Maremma toscana a sud di Grosseto, dove si trova una delle maggiori aziende in Europa condotte con il metodo dell’agricoltura biologica.

L’azienda agricola prima del parco
Il parco regionale della Maremma nasce nel 1975. Si estende per quasi 9.000 ettari tra il fiume Ombrone fino al paese di Talamone. Un ambiente variegato poiché, all’interno del suo perimetro, si trovano pinete, la costa scoscesa e le dune della spiaggia, le aree di wilderness alternate alle coltivazioni.
In realtà, la storia della produzione agricola nella Tenuta di Alberese nasce ben prima dell’istituzione del Parco, risalendo addirittura alla metà del XIX secolo, quando il Granduca di Toscana, Leopoldo di Lorena, acquistò e ampliò la Tenuta, investendo notevoli risorse finanziarie e umane per migliorare la produttività dell’azienda.

Il parco della Maremma. Foto di Alberto Pastorelli

Si è così creato un territorio in cui l’azione umana, dalle bonifiche alle scelte colturali, finanche alla selezione delle specie di allevamento si è intrecciata con la tutela della biodiversità e la cura degli ecosistemi. Qui, infatti, è visibile l’intervento umano, ideato a scopi produttivi, ma che ha lasciato un’eredità tale – in termini di biodiversità – da diventare la base fondativa per l’istituzione del parco.
Per esempio, i seicento ettari di pineta fra le colline dell’Uccellina e il fiume Ombrone non sono naturali, ma sono stati realizzati dai Lorena come una “piantagione di pini”. L’obiettivo del Granduca era chiaro: produrre pinoli e sfruttare i terreni vicino al mare, poco adatti all’agricoltura e all’epoca ricchi di acquitrini e paludi.

Un parco di origine antropica a vocazione agricola, quindi, che ha attraversato i decenni. Oggi, però, che rapporti ha l’azienda con il parco e le politiche di conservazione? Ne abbiamo parlato con Donatella Ciofani, agronoma e responsabile tecnica della Tenuta di Alberese, azienda di Ente Terre regionali.

Che tipo di azienda siete?
La nostra è un’azienda agro-zootecnica con una produzione diversificata e integrata: facciamo allevamento allo stato brado, abbiamo coltivazione cerealicole e foraggere, in massima parte dedicata all’alimentazione animale, abbiamo un oliveto secolare per la produzione di olio e produciamo anche vino. Poi c’è la componente dei servizi, avendo la gestione della banca del germoplasma che conserva le specie erbacee autoctone iscritte al repertorio della regione Toscana e le coltiva “in situ” e quella del seme dei riproduttori maremmani. Infine, alcuni casolari sono riservati all’ospitalità agrituristica.

Tori maremmani allo stato brado. Foto di Alberto Pastorelli

Che tipo di allevamento fate?
Qui si possono vedere le razze bovina maremmana ed equina maremmana in purezza, entrambe autoctone della Toscana, tutelate nell’ambito delle politiche di conservazione della agro-biodiversità e fortemente adattate al territorio.
Abbiamo oltre 400 bovini per 700 ettari di pascolo, 40 equini di razza maremmana in purezza e in selezione. Gli animali sono allevati in modo estensivo, con un basso indice di capi per ettaro, a ciclo chiuso vacca-vitello.

Rispettate particolari piani di conservazione per il mantenimento della biodiversità?
La nostra è un’azienda inserita in un parco regionale cui si pratica agricoltura biologica, ma è una risposta fuorviante: siamo l’esemplificazione di come possa essere ribaltato questo paradigma.
Ad Alberese non è l’azienda agricola che si è adeguata agli obiettivi di conservazione del parco, ma è la stessa vocazione agricola del territorio ad avere creato l’habitat che oggi si vuole proteggere. Qui l’azione umana, i differenti ecosistemi e la ricca biodiversità sono tessere di un puzzle perfettamente integrate in un unico sistema complesso.

L’accoglienza agrituristica quanto conta nel bilancio dell’azienda?
Anche se geograficamente siamo collocati in un’area a forte vocazione turistica, la nostra resta principalmente un’azienda agro-zootecnica in cui l’attività di accoglienza è complementare alle altre e marginale in valori assoluti.
Ci consente di mantenere attivi i casolari presenti nella tenuta e coprire le spese di manutenzione degli stabili.
Detto questo, per noi, la presenza turistica ha principalmente un valore legato al racconto dell’identità che stiamo preservando: qui si possono vedere figure come i butteri, si possono conoscere le tradizioni del territorio, si possono esplorare ambienti naturali modificati nei secoli dalla presenza umana.

Butteri nellla tenuta di Alberese. Foto di Alberto Pastorelli

Il vostro è un caso scuola, ma è replicabile altrove?
È un’azienda legata a doppio filo con il territorio, per cui non è un modello replicabile pedissequamente. Ma ogni azienda deve esprimere un legame con il territorio, diventandone presidio e mettendo in connessione gli aspetti di agro-biodiversità con la storia dei propri luoghi.
Un ottimo spunto, però, può essere preso dal nostro modello di allevamento zootecnico, per esempio selezionando razze antiche e autoctone. Queste, spesso, sono più resistenti e più adatte a sfruttare le aree marginali, offrendo risposte interessanti in termini economici.

L’allevamento estensivo riesce a essere remunerativo?
Negli anni abbiamo imparato a non trascurare alcun aspetto della filiera zootecnica, così da abbattere i costi superflui e ricavare un sostentamento dal nostro lavoro.
Innanzitutto, grazie all’allevamento brado è molto alto l’indice di benessere per l’animale. Ciò significa che, crescendo specie rustiche – frutto della selezione nei secoli – e ponendole in condizioni ottimali di vita, minimizziamo le spese di cura.
In secondo luogo, abbiamo accorciato la filiera avendo un macello aziendale e una rivendita, fornendo in loco solo poche realtà. Se da un lato non abbiamo i grandi numeri che interessano la grande distribuzione, dall’altro possiamo raccontare meglio il prodotto e troviamo un consumatore più consapevole e disposto a pagare un prodotto di qualità organolettica superiore.
Non solo. Il nostro cliente è consapevole del lavoro che facciamo ed è disposto a pagare un extra per la tutela dell’ambiente e del territorio, per la conservazione della cultura, per il rispetto etologico che questa forma di allevamento offre agli animali e per gli aspetti legati alla salute.

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L’agricoltura e la politica agricola comune (PAC) //www.agronomoforestale.eu/index.php/lagricoltura-e-la-politica-agricola-comune-pac/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=lagricoltura-e-la-politica-agricola-comune-pac //www.agronomoforestale.eu/index.php/lagricoltura-e-la-politica-agricola-comune-pac/#comments Tue, 02 Apr 2024 07:55:03 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68503 L’agricoltura è stata fortemente influenzata dalla politica agricola comune (PAC). Fin dagli anni ’60 del secolo scorso ci sono stati forti impatti sia delle politiche di mercato, con il ritiro dei prodotti eccedentari, sia con le misure strutturali. Buona parte delle serre del pesciatino, della riviera ligure e di molte zone d’Italia, furono realizzate con i primi programmi strutturali del FEOGA (Fondo Europeo Orientamento e Garanzia in Agricoltura).

Renato Ferretti, Vicepresidente CONAF

LE ORIGINI DELLA PAC

Con la sigla PAC si intende la raccolta che unifica le leggi dell’Unione europea in materia di agricoltura.
Creata nel 1962, fin dai primi vagiti dai sei paesi fondatori della Comunità Europea, è la più antica politica dell’Unione ancora in vigore.

Il suo obiettivo è quello di fornire alimenti a prezzi accessibili e di elevata qualità, garantire un tenore di vita equo agli agricoltori e dare sostegno alle zone rurali, tutelare le risorse naturali e rispettare l’ambiente.

Con oltre 386 miliardi di euro stanziati per il quinquennio 2023-2027 rappresenta la voce più corposa, circa 1/3 del totale, del bilancio unionale.

LE NOVITÀ DELLA PAC

La PAC 2023/2027 è un insieme di regole in materia ambientale, climatica e di salute e benessere delle piante e degli animali, che gli agricoltori sono tenuti ad accettare per accedere al sostegno pubblico.

Tale componente della PAC è ormai universalmente conosciuta con il termine “condizionalità” che dal 2023 è diventata più severa e rigorosa, cambiando nome in “condizionalità rafforzata”, in ossequio alla più radicata sensibilità ambientale che pervade l’Unione Europea, spalmata su tutto il territorio senza sforzi di specificazione.

L’asse portante è sempre il regime dei pagamenti diretti, che assorbe poco meno del 60% della spesa pubblica della PAC. Questa rimane una modalità disequilibrata rispetto ai reali fabbisogni, specie dell’agricoltura italiana marginale, ma determinante per la vita di vaste aree del paese. Tutto ciò nonostante l’intervento riformatore abbia impresso due nuove tendenze:

  • una orientata verso la sostenibilità, con l’introduzione del cosiddetto regime ecologico
  • una rivolta verso il principio dell’equità nell’utilizzo delle risorse finanziarie di cui per ora non si vedono effetti.

 

Vi è poi un pacchetto di interventi settoriali, che vede la conferma dell’approccio tradizionale per produzioni quali l’ortofrutta, il vino, l’olio d’oliva e le olive da tavola e, infine, l’apicoltura, cui si aggiunge una spruzzatina di novità, con la possibilità concessa agli Stati membri di attivare interventi settoriali per produzioni diverse da quelle menzionate. Per finanziare i nuovi interventi settoriali, lo Stato membro può utilizzare fino al 5% della dotazione annuale per i pagamenti diretti. Per l’Italia ciò implica un gettito massimo di 180 milioni di euro per anno.

 

Infine, c’è la politica di sviluppo rurale che presenta, in questo ciclo di programmazione, la sostanziale novità di prevedere solo otto interventi generali, i quali sostituiscono la moltitudine delle misure e delle sotto misure della precedente programmazione. In aggiunta, vi è la novità del contenimento al minimo delle regole stabilite a livello europeo. Infatti, la devoluzione delle competenze, comporta l’affidamento alle autorità nazionali di decisioni su aspetti fino ad oggi formulate nei regolamenti europei, come ad esempio i beneficiari, la tipologia di spese ammissibili, l’impostazione degli interventi, l’allocazione delle risorse finanziarie, la definizione dei requisiti e delle condizioni di accesso ai contributi pubblici, la calibrazione degli interventi in funzione dei fabbisogni del territorio.

MOLTE AGRICOLTURE

L’impatto della politica agricola comune (PAC) è cresciuto negli anni, in quanto ormai non c’è attività del settore agricolo che non abbia un riferimento normativo di carattere europeo, sia che si tratti di finanziamenti che di norme regolamentari. Il problema, sia nell’uno che nell’altro caso, è che le norme sono ispirate a una omogenea tipologia di agricoltura e di territorio (sicuramente prevalente, ma non esclusiva) e male si adattano ad agricolture e territori complessi come la maggior parte di quelli italiani, ma potremmo dire di tutta l’area mediterranea.

La PAC, nata per superare le disparità socio-economiche territoriali e settoriali utilizzando l’erogazione dei contributi, si è tradotta in una erogazione massiva in base alle dimensioni aziendali.

In oltre 50 anni, così, la PAC non ha prodotto gli effetti desiderati. Anzi, ha approfondito il divario fra agricolture forti e quelle più deboli, fra territori senza limitazioni e territori marginali.

Il perché è rintracciabile nell’essere stata concepita a senso unico, senza essere articolata e differenziata nelle diverse regioni, senza una reale programmazione nei e con i territori, anche con importanti responsabilità nazionali e regionali.

 

IL CASO OLIVICOLO

La dimensione media delle aziende olivicole collinari toscane è di due ettari, qui occorre fare quasi tutto manualmente.

L’Unione Europea concede un contributo di circa 300 euro a ettaro: quindi 600 euro complessivi, di cui un centinaio sono necessari per fare la domanda e, quindi, rimangono circa 500 euro.

Lo stesso contributo ad ettaro viene concesso ad un ipotetico olivicoltore di pianura che, magari, dispone di 100 ettari olivati e interamente meccanizzati. Credo sia evidente che l’impatto del contributo pubblico non è lo stesso. A ciò dobbiamo aggiungere che l’olivicoltura delle colline contribuisce a mantenere le caratteristiche del paesaggio e a salvaguardare l’equilibrio idrogeologico: ma di tutto questo la PAC non si preoccupa.

 

Non possiamo certamente pensare che l’olivicoltura di collina possa essere commercialmente competitiva con l’olivicoltura-prato presente in crescenti aree di pianura in Spagna e in Italia: basta fare un giro a Massaciuccoli e si vedrà l’olivicoltura di collina abbandonata e il proliferare di oliveti specializzati nelle zone di bonifica che farebbero rabbrividire i padri dell’olivicoltura di qualità.

Quindi, se vogliamo mantenere l’olivicoltura e l’insieme dell’agricoltura in tutti i territori occorre che la PAC (leggasi Unione Europea) conosca le diversità fra gli stessi ed applichi gli strumenti finanziari e regolamentari in modo più aderente alle necessità dei diversi territori.

 

AGRICOLTURA VS AMBIENTE

I continui eventi meteorici estremi hanno reso evidente a tutti il cambiamento climatico in atto, alimentando la sensibilità dei cittadini europei verso i temi ambientali.

La PAC ha fatto propri, anche se in linea generale e in maniera troppo generica, i principi e gli obiettivi della Strategia Farm to Fork e della Strategia sulla Biodiversità, entrambe generate dal Green Deal, prevedendo un cambio di paradigma, rafforzando la condizionalità e introducendo gli eco-schemi. Si chiede di fatto agli agricoltori e agli allevatori un ulteriore passo in avanti nel rispetto dell’ambiente, delle acque, degli agro-ecosistemi, degli animali, del clima e del cibo, declinando una serie di parametri di carattere fisico sostanzialmente analoghi in tutta l’Unione Europea.

Il Green Deal non può essere solo una serie di indicatori fisici, ma deve essere uno strumento capace di valorizzare le esternalità prodotte dalle produzioni cerealicolo-foraggere, dall’olivicoltura nelle colline centro-meridionali italiane e dalla zootecnia delle aree marginali, dalla viticoltura cosiddetta eroica.

Valorizzare le esternalità vuol dire dare un valore, che difficilmente il mercato pagherà, a tutti quei servizi che un’agricoltura qualitativamente produttiva eroga in queste aree.

Vuol dire compensare realmente le differenze tecnico-agronomiche e conseguentemente i livelli produttivi che si possono raggiungere nelle aree più difficili, rispetto alle fertili pianure. Nelle fertili pianure la PAC deve incentivare la diversificazione produttiva, valorizzare le rotazioni colturali per la rigenerazione dei suoli e la conservazione della sostanza organica.

È questa l’essenza del Green Deal che, per essere attuato cercando di essere economicamente efficienti, non può non precedere un’organizzazione delle produzioni a livello comprensoriale con specializzazioni all’interno delle aziende e con una zootecnia di territorio e non più solo aziendale.

È questa l’unica strada per cercare di mantenere insieme la conservazione della fertilità del suolo, le produzioni agro zootecniche e l’ambiente.

 

LA PAC OLTRE LA PAC

Poche settimane fa abbiamo visto che l’imposizione delle teoriche fasce tampone, non coltivate, in aree ad agricoltura fortemente industrializzata come la pianura padana e le pianure del centro Europa è stato uno dei motivi che hanno scatenato le cosiddette “proteste dei trattori”.

Questo episodio evidenzia come le politiche green non pianificate né declinate sulle specifiche esigenze conducano alla sterile ed errata contrapposizione agricoltura vs ambiente.

La retromarcia della politica europea, presa in contropiede dalle proteste, però, non può essere la risposta. È una pura illusione pensare che il futuro della PAC consista nel semplice aggiustamento di qualche misura e nel ritoccare in senso meno ambientalista alcune misure di carattere ecologico, legate alla “condizionalità rafforzata”. La PAC deve essere lo strumento con cui si riporta a livello di territorio, l’economia circolare che era l’essenza del podere e della fattoria.

Non possiamo pensare di contrastare il cambiamento climatico se non cambiamo alcuni paradigmi fondanti dell’agricoltura industrializzata, ossia lo spostamento per esempio di risorse foraggere a chilometri di distanza da dove vengono prodotte, per nutrire animali allevati in stalle di grandi dimensioni che a loro volta producono enormi quantità di letame e liquami di difficile utilizzazione in loco. Questo di fatto impoverisce le aree di produzione del foraggio e probabilmente causa problemi ambientali a quelle circostanti le stalle.

Sono questi i temi che occorre affrontare con il nuovo periodo di programmazione comunitaria. Una programmazione che deve essere reale e, aggiungo, con un’attenta pianificazione territoriale improntata al ripristino della natura come la legge recentemente approvata dal Parlamento Europeo vuole.

Per fare tutto questo è indubbio che occorre un sistema pubblico all’altezza della sfida, tecnicamente preparato e capace di interloquire con le imprese e gli imprenditori in maniera trasparente e, magari, con minori barriere informatiche, non senza informatica!

VINCERE LA SFIDA

La sfida decisiva insita nella nuova PAC è legata al salto di qualità della pubblica amministrazione in termini di capacità operative, approccio e metodo di lavoro.

Il passaggio dalla conformità delle attività, alle prestazioni delle stesse, dal rispetto rigoroso delle regole e procedure fissate a Bruxelles verso un intervento strategico delle autorità nazionali e regionali nella fase di impostazione e di attuazione degli interventi, esige una risposta coerente da parte delle istituzioni centrali e territoriali. Ecco che la pubblica amministrazione dovrà acquisire nuove capacità e competenze modificando il consolidato modello di lavoro che si è affermato da almeno tre decenni a questa parte.

 

In quest’ottica, il caso della nuova politica di sviluppo rurale rappresenta il paradigma di riferimento, che dimostra in modo inequivocabile il passaggio dalla conformità al risultato.

Nel concreto, le istituzioni nazionali hanno la possibilità, con il nuovo ciclo di programmazione della PAC, di concentrare le risorse su specifici settori produttivi e su determinati territori. Inoltre, possono scegliere con ampia autonomia gli interventi da attivare, fatto salvo l’obbligo di inserire nel programma quelli di natura ambientale. Possono, infine, orientare gli interventi e le risorse solo verso determinati beneficiari e specifici approcci produttivi; oppure scegliere opzioni a geometria variabile, con l’esclusione di certi settori o determinate categorie di beneficiari in funzione del contesto considerato.

 

Dall’esame dei documenti e delle azioni intraprese risulta però evidente che, in termini di nuovo approccio alla programmazione e di ampia discrezionalità decisionale, in Italia le potenzialità non siano state adeguatamente espresse e, alla fine, siamo tornati a percorrere le esperienze del passato, con la classica divisione delle competenze tra Ministero da una parte e Regioni e Province autonome dall’altra.

 

IMPRENDITORI AGRICOLI

In questo discorso c’è un aspetto che viene comunemente trascurato: in un’agricoltura moderna, gli agricoltori non sono semplici produttori di cibo, ma sono dei veri e propri imprenditori, seppure con caratteristiche peculiari. Ne deriva che, l’altro elemento fondamentale della PAC per l’attuazione coerente e a misura di territorio, sono gli imprenditori e le imprese agricole, a prescindere dalle dimensioni.

 

La prima criticità che balza all’occhio, partendo da questa riflessione è che l’attuale PAC nasce in uno scenario economico diverso a quello in cui viene ad attuarsi, caratterizzato da un alto tasso d’inflazione, dal rialzo dei tassi di sconto e dalla perdita del potere di acquisto delle famiglie medie italiane. Tutti elementi che incidono sui consumi e di conseguenza sulle vendite delle aziende agricole, causando una generale crisi delle stesse.

A questo disallineamento tra il momento dell’ideazione delle politiche e la loro attuazione, si aggiunge anche la scarsa tradizione del mondo agricolo a leggersi come realtà imprenditoriale oltre che economica.

Nel mondo agricolo del XXI secolo occorrono, infatti, degli imprenditori agricoli che non aspettino il finanziamento pubblico per decidere quali investimenti fare, ma che siano in grado di programmare e adeguare la propria attività in funzione dei cambiamenti. Imprenditori agricoli che, con una maggiore capacità associativa, sappiano condizionare i cambiamenti e non solo di subirli, orientando il rapporto con il consumatore finale e con la grande distribuzione.

La risposta alla crisi attuale, sia produttiva che dei consumi, sta nello sviluppare un’agricoltura consapevole. Consapevole dei limiti che la specializzazione estrema comporta, consapevole della necessità di fare ricorso a tutti i mezzi tecnici disponibili, della necessità di maneggiare strumenti finanziari e di marketing e, pure, dell’importanza del supporto di tecnici, intesi come partner capaci di accompagnare l’impresa agricola verso la sostenibilità, sia essa ambientale che economica.

 

UNA NUOVA POLITICA AGRICOLA COMUNE

Siamo convinti che sia possibile avere una politica agricola comune che tenga conto delle differenze agronomiche e territoriali, che possa dare vera attuazione al Green Deal senza contrapposizioni fra posizioni ambientaliste e produttivistiche, che stimoli azioni reali di rigenerazione della fertilità dei suoli, di riduzione degli input esterni al processo produttivo in una reale economia agricola circolare.

 

L’obiettivo è chiaro e l’esperienza di cinquant’anni di PAC può aiutare a migliorare le criticità: ora starà alla nuova classe politica che uscirà dalle urne alle prossime elezioni europee farsi carico di vincere una delle sfide più probanti per i prossimi decenni.

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