SDAF: Formazione, settori disciplinari professionali – Coltiv@ la Professione //www.agronomoforestale.eu agronomi e forestali Fri, 09 Aug 2024 14:28:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.3.5 Il caso dell’urbanistica di genere //www.agronomoforestale.eu/index.php/urbanistica-verde-genere/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=urbanistica-verde-genere //www.agronomoforestale.eu/index.php/urbanistica-verde-genere/#respond Fri, 30 Aug 2024 06:51:57 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68549 Come si progetta una città inclusiva? E, nello specifico, è pensabile lavorare affinché ci sia un’inclusività legata al genere?
Finalmente, anche a livello politico e non solo per le persone comuni, sta emergendo la necessità di far crescere la qualità della vita nelle città, rendendole accoglienti per tutti i bisogni e per tutte le tipologie di cittadini. In questo senso, come dottori agronomi e dottori forestali che si occupano di progettare gli spazi verdi, abbiamo proposto numerose best practice che hanno dimostrato inventiva e raggiunto apprezzabili successi.

Al lavoro da 40 anni
Dagli anni Ottanta, la Facoltà di Agraria di Bologna ha introdotto la paesaggistica dei parchi e giardini nel percorso di formazione dei dottori agronomi e forestali. Sono passati circa 40 anni, ma in questi decenni come professionisti abbiamo ottenuto meno visibilità di quanto meritiamo nelle attività di progettazione dello spazio urbano della città.

Si tratta di attività che, partendo dalle conoscenze tecniche, quando applicate con competenza definiscono un indirizzo politico, di guida alla pianificazione urbana delle città. Anche se sottotraccia, però, in questi quattro decenni abbiamo saputo passare da una progettazione a piccola scala dei giardini a quella di area vasta a livello territoriale.

La prossima sfida

Progettare una “città verde” inclusiva e rispettosa del genere è la prossima sfida che ci vede protagonisti.

Le città, infatti, vivono solo se offrono spazi pubblici, quali giardini, parchi, alberate stradali, piazze (ricche di vegetazione), che permettono di essere fruiti in tutta sicurezza da tutti, anche dalle fasce più fragili. Accanto alle conoscenze tecniche, più che necessarie, deve esserci l’analisi di come le cittadine e i cittadini, donne, uomini, anziani, bambine e bambini vivono la città, di come si spostano, di come creano e intessono relazioni. Ne consegue un legame forte tra la progettazione delle infrastrutture verdi e il tema viabilità e mobilità pedonale e ciclabile all’interno e all’esterno degli spazi verdi pubblici.

Le donne, per esempio, se da un lato utilizzano maggiormente lo spazio urbano pubblico, dall’altro risultano particolarmente attente alla sicurezza dei luoghi. Ecco che queste due semplici constatazioni possono, anzi devono, diventare un driver nella realizzazione delle infrastrutture verdi urbane a misura di tutti.

Dato statistici e analisi di contesto

Quando si parla di urbanistica di genere, si parla di un approccio alla pianificazione urbana che deve tenere conto delle differenze nello sviluppo e gestione degli spazi aperti urbani, con scelte tecniche che portino a promuovere l’uguaglianza tra uomini e donne.

Sono numerosi gli studi fatti in tante città europee, come Barcellona, Oslo, Vienna, Stoccolma, ma anche italiane, come Milano e Bologna che, partendo da dati statistici raccolti tramite interviste e questionari e dall’analisi del contesto hanno portato allo sviluppo di progetti urbanistici che contribuiscono a ridurre le diseguaglianze, con una particolare attenzione alla sicurezza delle donne e alla prevenzione della violenza di genere.

Questi studi hanno migliorato la comprensione di come le donne si muovono nelle città, quali spazi attraversano nella quotidianità e quali elementi le fanno sentire maggiormente sicure. La conseguenza di questi studi è che si può progettare spazi verdi offrendo soddisfazione a bisogni specifici e facendo crescerne la fruizione.

Mobilità

Le donne e gli uomini si muovono nelle città in modo differente. Sono ancora una volta i dati (Bloomberg NEF) che ci indicano come molte città europee stanno lavorando per modificare la mobilità e i trasporti, per avere città meno inquinate e ridurre il traffico, ma anche per renderle più inclusive e attente alla mobilità di genere.

Mentre gli uomini si muovono maggiormente in auto e in modo lineare, lungo le arterie stradali principali, la mobilità al femminile è meno diretta: le donne usano più spesso i mezzi pubblici o la bicicletta e camminano più spesso, attraversano la città per tratti spesso più brevi, più frequenti nella giornata e con un maggior numero di soste. Uno dei motivi è che le donne, oltre al lavoro, si spostano per portare i bambini e le bambine a scuola, per riprenderli, per fare la spesa, per andare al parco, e quindi hanno esigenze più complesse.

Già oggi, città come Parigi hanno sposato il concetto della “città dei 15 minuti”, a piedi, in bicicletta, con i mezzi pubblici per muoversi nella città. E se Parigi, così come le città citate prima, ragionano su percorsi ciclopedonali che attraversano la città, le nostre città italiane spesso medio/piccole possono davvero lavorare su un ridisegno della mobilità dolce a favore della uguaglianza di genere. Una città che si muove avendo a cuore le esigenze delle donne, è una città che pensa alle esigenze di tutti.

La qualità urbanistica con gli spazi verdi

Per un’urbanistica inclusiva, in una città dove si vive e si “respira” bene, si deve pianificare, progettare e prendersi cura degli spazi verdi, dai piccoli giardini ai grandi parchi, dalle strade alberate, alle piazze urbane.
Le piazze devono cambiare volto, avere un’alta presenza di vegetazione e spazi interconnessi che si sviluppino in una rete ecologica continua, integrata con percorsi ciclopedonali che conducono ai luoghi di socialità, di lavoro, delle scuole, delle aree commerciali, realizzando un tessuto urbano armonioso.

Dottori agronomi e dottori forestali, nella progettazione degli spazi verdi, sanno scegliere correttamente le specie maggiormente idonee al contesto: ci sono alberi in grado di fare ombra e di sopportare periodi lunghi di siccità, anche invernale; oppure piante a crescita rapida, se dobbiamo progettare spazi dove non abbiamo vegetazione e dove le isole di calore sono elementi di malessere per le persone; ci sono alberi in grado di sopportare le piogge intense, le così dette “bombe d’acqua”. Senza trascurare i progetti di depavimentazione a favore dell’inserimento di vegetazione e drenaggi urbani o rain garden.

Ora però serve un passaggio di scala della progettazione, dal singolo giardino o parco a quella urbana della intera città. L’obiettivo finale deve portare a realizzare città verdi, continue quasi che, se le vedessimo dall’alto, sparirebbero visivamente le aree edificate e la viabilità diventerebbe una trama continua di un mantello verde.
Ecco che la nuova scala di progettazione deve confrontarsi con la distribuzione nello spazio delle masse di alberi, arbusti, prati, aree di sosta, aree ludiche e sportive e con il loro disegno.

Sicurezza di genere

Non è sufficiente che gli spazi verdi siano connessi tra loro. Per incrementarne l’uso è necessario avere luoghi vissuti nella loro pienezza, che devono essere percepiti come sicuri a tutte le ore del giorno e della notte.

Ne consegue che, soddisfando la richiesta di sicurezza e di inclusione dello spazio pubblico manifestato dalle donne, si fa crescere il senso di sicurezza in tutta la cittadinanza, al di là del genere e della fascia di età. E sì avvia un effetto virtuoso sullo spazio pubblico, che diventa vitale e si trasforma in luogo della collettività, accrescendo l’attrattività, che origina una maggiore sicurezza, che ne incentiva ulteriormente l’utilizzo.

Per questo motivo, affrontare la sicurezza di genere nei progetti urbani pubblici che includono i parchi, le piazze, i giardini richiede un approccio olistico.

Nella progettazione bisogna immaginare luoghi sempre illuminati, anche di notte; lungo i percorsi, nelle aree di sosta e gioco, si dovrà fare attenzione a massimizzare la visibilità per agevolare la “sorveglianza naturale”.
Questo significa, per i dottori agronomi e dottori forestali, progettare spazi aperti e “trasparenti” che permettano alle persone di essere viste e a loro volta di vedere oltre il luogo di sosta o di percorrenza. Ecco che all’adeguata scelta delle specie e alla distribuzione delle masse arbustive e delle strutture aggiunge una variabile: non basta che siano piante adatte a resistere alle caratteristiche del posto e alle sfide del cambiamento climatico in atto, ma si deve evitare che possano creare luoghi interclusi e bui.

Equità sociale

Una città verde, inclusiva, attenta al genere femminile, agli anziani e ai bambini e alle bambine è anche una città equa, dove il verde diviene motore di armonizzazione sociale.

Le città vanno ridisegnate, portando aree verdi diffuse in tutti i quartieri, poiché la presenza di parchi e giardini, piste ciclopedonali, alberate stradali non siano un privilegio di alcune fasce sociali.

Le parti delle città dove il verde è maggiormente diffuso sono le aree anche più costose come valori immobiliari, e che negli anni hanno creato differenze sociali portando le diverse zone delle città a non dialogare tra loro. Nelle ‘nuove’ città la regola 3-30-300 (3 alberi che si vedono dalla finestra di ogni casa, 30% di copertura arborea in ogni quartiere e non più di 300 m per raggiungere un’area verde dalla propria abitazione) dev’essere ubiquitaria, perché una città verde significa vita e salute.

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Vendemmia 2024: Italia divisa in due, anno difficile e complesso //www.agronomoforestale.eu/index.php/vendemmia-2024-italia-divisa-in-due-anno-difficile-e-complesso/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=vendemmia-2024-italia-divisa-in-due-anno-difficile-e-complesso //www.agronomoforestale.eu/index.php/vendemmia-2024-italia-divisa-in-due-anno-difficile-e-complesso/#respond Sat, 24 Aug 2024 07:16:05 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68544 In molte regioni del sud è partita la vendemmia 2024 con la raccolta dei primi grappoli delle varietà precoci e delle basi spumante in Sicilia, Puglia e Lombardia (Franciacorta) e terminerà alla fine di ottobre/inizio novembre, con le varietà più tardive come l’aglianico tra Basilicata e Campania. Il dato peculiare di quest’anno, però è la divisione (quasi) netta tra sud e nord.

Il Centro-Sud fa i conti con un’importante siccità che sta colpendo maggiormente la Sicilia e le regioni più meridionali. A nord, invece, a preoccupare sono la peronospora e gli eccessi di pioggia.

Il dato rilevante quindi è che, per il secondo anno consecutivo, l’avverso andamento meteoclimatico sottolinea l’imprescindibile ruolo della gestione agronomica del vigneto, intesa come principale strategia per ottenere comunque produzioni che rispecchino il sito specifico e il mantenimento della qualità delle uve.

 

Oggi a me, domani a te

Il destino dell’Italia vitivinicola 2024 sembra inverso, rispetto a quanto accaduto nel 2023.

Lo scorso anno, in seguito agli eccessi di pioggia avuti in primavera e inizio estate, al Centro-Sud si parlava di emergenza peronospora (Plasmopara viticola). Questa fitopatia ha danneggiato migliaia di ettari di vigneto favorendo le condizioni, assieme alla successiva siccità estiva, per avere una tra le più scarse annate di sempre dal punto di vista quantitativo.

Al contrario, al Nord si viveva una relativa tranquillità, con una scarsa diffusione di fitopatie e con diffusi episodi di maltempo nei mesi pre-raccolta, che hanno consentito di ottenere un buon risultato.

Oggi, le parti si sono invertite. Il nord Italia si trova a combattere contro la peronospora e con eccessi di pioggia, mentre al sud la peronospora è un brutto ricordo, ma di fanno i conti con la siccità.

Insomma, un altro anno impegnativo e difficile per la viticoltura italiana, segnato dall’andamento climatico anomalo che, ancora una volta, detta i tempi e mette a dura prova i tecnici e gli agricoltori.

La gestione agronomica del vigneto

Chi lavora in agricoltura sa, che ogni anno è diverso e che la ‘variabile meteo’ aggiunge complessità alla gestione tecnica dei vigneti, mai costante e mai determinata.

Il vino è una materia viva che nasce in vigna e, nella vigna, vede oggi i maggiori problemi e le maggiori variabili legate al meteo, che ne condizionano la qualità ed il raggiungimento dell’obbiettivo enologico di successo.

In questi momenti così difficili, per poter portare a casa il miglior risultato possibile, c’è necessita di conoscenza tecnica, determinazione e caparbietà.

Sono determinanti la gestione agronomica del vigneto, la tempestività negli interventi, la difesa fitosanitaria mirata e puntuale, le tecniche vitivinicole appropriate, la conoscenza delle condizioni pedo-climatiche del vigneto e della specificità dei vitigni per portare a casa il risultato, avere delle produzioni che rispecchino il sito specifico e puntare ad elevare la qualità delle uve.

Per contrastare questi repentini cambi climatici, risulta sempre più importante curare l’aspetto tecnico professionale, passando dall’innovazione e alle tecniche gestionali del vigneto, alla conoscenza delle specificità dei prodotti per la difesa fino a giungere a interventi ‘chirurgici’ e di precisione.

 

Il vino si fa in vigna

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una crescita culturale della viticoltura, volta sia all’attenzione alle condizioni climatiche come alla riduzione degli impatti sull’ambientali e sulla vita dei consumatori.

Tutto questo deve far crescere la centralità della viticoltura sul piano strategico aziendale e nazionale, stando vicino alle tematiche del lavoro in vigna.

Se negli anni il vino italiano ha conquistato nuovi consumatori e il plauso e il riconoscimento di eccellenza, oggi più che mai ha necessità di investire sulla conoscenza in vigna “sito specifico”, sulla ricerca e sulle innovazioni tecnologiche del processo produttivo legato ai cambiamenti climatici, sulla riduzione degli impatti sull’ambiente e sui consumatori.

 

È un processo che inevitabilmente si avvia nella vigna per trovare il naturale proseguimento in cantina. Fortunatamente questo processo è già in atto e molte aziende di eccellenza del vino con successo si affidano a tecnici agronomi specializzati in viticoltura per seguire i vigneti e raggiungere dei prefissati obbiettivi enologici.

Capacità e competenze, alter ego di produzione e qualità

Questo 2024 ha dimostrato ulteriormente, se mai ce ne fosse stato bisogno, della necessità di impegnarsi valorizzando l’aspetto tecnico e professionale nella gestione della vigna, nella difesa fitosanitaria, fino alla scelta del momento per la raccolta dei grappoli e della lavorazione dei mosti in cantina. Solo con capacità e competenze si possono fare le scelte giuste per limitare perdite di produzioni e garantire la qualità che tutto il mondo riconosce, apprezza e si aspetta dai vini italiani.

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Le produzioni vegetali e il ruolo dei dottori agronomi e dei dottori forestali //www.agronomoforestale.eu/index.php/le-produzioni-vegetali-e-il-ruolo-dei-dottori-agronomi-e-dei-dottori-forestali/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=le-produzioni-vegetali-e-il-ruolo-dei-dottori-agronomi-e-dei-dottori-forestali //www.agronomoforestale.eu/index.php/le-produzioni-vegetali-e-il-ruolo-dei-dottori-agronomi-e-dei-dottori-forestali/#respond Sat, 01 Jun 2024 07:41:25 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68524 Le produzioni vegetali rappresentano un settore fondamentale dell’agricoltura, che comprende la coltivazione di piante per il consumo umano, animale e per altri usi industriali. Queste produzioni includono colture come cereali, legumi, frutta, verdura, piante da olio, piante da fibra e colture speciali come quelle officinali e aromatiche.

Esse influenzano:

  • sicurezza alimentare: forniscono cibo, garantendo l’accesso a una dieta equilibrata e nutriente
  • economia rurale: creano opportunità di lavoro e reddito nelle aree rurali, contribuendo allo sviluppo economico e sociale delle comunità agricole
  • ambiente: le pratiche agricole sostenibili, promosse dai dottori agronomi e dai dottori forestali, aiutano a conservare le risorse naturali, ridurre l’impatto ambientale e combattere il cambiamento climatico.

7 aree di competenza dei dottori agronomi e dottori forestali
Agronomi e forestali svolgono un ruolo cruciale nelle produzioni vegetali, promuovendo pratiche agricole che sono sostenibili, efficienti e sicure. La loro competenza contribuisce a migliorare la produttività agricola, la qualità dei prodotti e la sostenibilità ambientale, garantendo benefici a lungo termine per l’economia e la società.

1. analisi del suolo e del territorio:

  • valutazione della fertilità: eseguono analisi del suolo per determinare i nutrienti disponibili e raccomandano interventi per migliorare la fertilità del terreno.
  • gestione del suolo: consigliano pratiche per prevenire l’erosione, migliorare la struttura del suolo e aumentare la capacità di ritenzione idrica.

2. pianificazione delle colture:

  • scelta delle colture: aiutano nella selezione delle colture più adatte alle condizioni climatiche e pedologiche del territorio.
  • rotazione delle colture: pianificano rotazioni colturali per migliorare la salute del suolo e ridurre l’incidenza di parassiti e malattie.

3. gestione delle risorse idriche:

  • irrigazione efficiente: progettano e implementano sistemi di irrigazione che ottimizzano l’uso dell’acqua, come l’irrigazione a goccia.
  • conservazione dell’acqua: promuovono tecniche di agricoltura conservativa per mantenere l’umidità del suolo e ridurre il fabbisogno idrico.

4. controllo delle malattie e dei parassiti:

  • gestione integrata dei parassiti (IPM): implementano strategie per il controllo dei parassiti che combinano metodi biologici, fisici e chimici in modo sostenibile.
  • uso di prodotti fitofarmaci: raccomandano l’uso responsabile e mirato di fitofarmaci per ridurre l’impatto ambientale e garantire la sicurezza alimentare.

5. miglioramento genetico e selezione delle varietà:

  • sviluppo di nuove varietà: collaborano con istituti di ricerca per sviluppare e introdurre varietà di piante più resistenti alle malattie, con maggiore resa e adattabilità a diverse condizioni climatiche.
  • conservazione delle risorse genetiche: promuovono la conservazione delle varietà locali e delle specie tradizionali per mantenere la biodiversità agricola.

6. sostenibilità e innovazione:

  • agricoltura di precisione: utilizzano tecnologie avanzate come i droni, i sensori e i sistemi GIS per monitorare e gestire le colture in modo preciso e sostenibile.
  • pratiche sostenibili: promuovono pratiche agricole sostenibili come l’agricoltura biologica e la conservazione delle risorse naturali.

7. formazione e consulenza:

  • supporto agli agricoltori: forniscono consulenza tecnica agli impresari agricoli su pratiche di coltivazione, gestione delle risorse e strategie di mercato.
  • educazione e sensibilizzazione: organizzano corsi di formazione e campagne di sensibilizzazione per diffondere conoscenze e innovazioni nel settore agricolo.

 

Il peso dell’agricoltura nell’economia italiana
Il settore agricolo e agroalimentare in Italia ha un ruolo significativo nell’economia nazionale. Nel 2023, il comparto agroalimentare rappresentava circa il 15% del PIL italiano, con il settore agricolo da solo che contribuiva per circa il 2%.

1,1 milioni di aziende agricole
L’Italia conta circa 1,1 milioni di aziende agricole, che coprono indicativamente 12,6 milioni di ettari della superficie agricola del paese.

50% di terreni agricoli
Oltre il 50% della superficie totale adibita a uso agricolo è montuosa o soggetta a vincoli naturali.

53% di popolazione rurale
Il 53% della popolazione italiana vive in zone rurali o intermedie e il settore agricolo e forestale costituiscono fattori economici importanti.

Il valore aggiunto complessivo della filiera agroalimentare nel 2022 ha raggiunto i 64 miliardi di euro, di cui 37,4 miliardi derivanti dalla produzione agricola e 26,7 miliardi dall’industria alimentare. Se si considera anche la distribuzione e la ristorazione, il peso del settore agroalimentare sul PIL sale al 7,7%, e includendo i servizi di trasporto, logistica e intermediazione necessari per portare i prodotti dal campo alla tavola, la stima supera il 15,2%.
L’Italia è un leader nella produzione di vari prodotti agricoli in Europa. Ad esempio, detiene una quota del 37% nella produzione di vino e del 33% nella produzione di olio d’oliva nell’UE. È anche un importante produttore di frutta, coprendo il 18% della produzione dell’UE.

 

Nonostante la rilevanza del settore, l’agricoltura italiana affronta diverse sfide strutturali, tra cui la frammentazione delle aziende agricole, la scarsa presenza di giovani imprenditori e problemi di accesso alla terra, con valori fondiari molto elevati rispetto ad altri Paesi europei.
Inoltre, il settore deve affrontare le incertezze climatiche e la volatilità dei prezzi, che influenzano negativamente la produzione e il valore aggiunto.

Produzione agricola per settore
Quando si parla di valore della produzione agricola si sommano i valori dei prodotti agricoli e quelli zootecnici, escludendo la produzione di servizi in agricoltura.
Circa la metà del valore della produzione complessiva in UE proviene dalle colture, tra le quali gli ortaggi, le piante orticole e i cereali erano le colture più pregiate, circa due quinti da animali e da prodotti di origine animale. Di questi ultimi, la maggior parte del valore è frutto dal solo da latte e dall’allevamento suinicolo.
I contributi e la quota di prodotti animali e vegetali differiscono notevolmente da uno Stato membro all’altro e tra di essi, riflettendo le differenze nei volumi prodotti, nei prezzi percepiti, nonché nel mix di colture coltivate, animali allevati e prodotti animali raccolti.

Produzione agricola per settore in Italia.
Valore della produzione ai prezzi base nel 2023 (milioni di euro)

La suddivisione della produzione agricola

 

La suddivisione della produzione vegetale

 

Le percentuali della produzione zootecnica nazionale

Fonte: EUROSTAT

In conclusione
I dottori agronomi e i dottori forestali hanno una visione olistica e competenze multidisciplinari essenziali per affrontare sfide ambientali ed agricole del nostro tempo.
Attraverso l’integrazione di diverse competenze e la collaborazione con altri professionisti, essi sono dei team leader in grado di sviluppare e promuovere pratiche agricole e forestali sostenibili, contribuendo alla tutela dell’ambiente e alla produzione efficiente e sicura alimentare.

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Ribaltare il paradigma //www.agronomoforestale.eu/index.php/ribaltare-il-paradigma/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=ribaltare-il-paradigma //www.agronomoforestale.eu/index.php/ribaltare-il-paradigma/#respond Fri, 24 May 2024 10:25:52 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68537 A ridosso del mare, tra le colline coltivate, le pinete litoranee e la macchia mediterranea, i bianchi mantelli dei bovini maremmani tratteggiano il paesaggio agricolo. Siamo ad Alberese , nella Maremma toscana a sud di Grosseto, dove si trova una delle maggiori aziende in Europa condotte con il metodo dell’agricoltura biologica.

L’azienda agricola prima del parco
Il parco regionale della Maremma nasce nel 1975. Si estende per quasi 9.000 ettari tra il fiume Ombrone fino al paese di Talamone. Un ambiente variegato poiché, all’interno del suo perimetro, si trovano pinete, la costa scoscesa e le dune della spiaggia, le aree di wilderness alternate alle coltivazioni.
In realtà, la storia della produzione agricola nella Tenuta di Alberese nasce ben prima dell’istituzione del Parco, risalendo addirittura alla metà del XIX secolo, quando il Granduca di Toscana, Leopoldo di Lorena, acquistò e ampliò la Tenuta, investendo notevoli risorse finanziarie e umane per migliorare la produttività dell’azienda.

Il parco della Maremma. Foto di Alberto Pastorelli

Si è così creato un territorio in cui l’azione umana, dalle bonifiche alle scelte colturali, finanche alla selezione delle specie di allevamento si è intrecciata con la tutela della biodiversità e la cura degli ecosistemi. Qui, infatti, è visibile l’intervento umano, ideato a scopi produttivi, ma che ha lasciato un’eredità tale – in termini di biodiversità – da diventare la base fondativa per l’istituzione del parco.
Per esempio, i seicento ettari di pineta fra le colline dell’Uccellina e il fiume Ombrone non sono naturali, ma sono stati realizzati dai Lorena come una “piantagione di pini”. L’obiettivo del Granduca era chiaro: produrre pinoli e sfruttare i terreni vicino al mare, poco adatti all’agricoltura e all’epoca ricchi di acquitrini e paludi.

Un parco di origine antropica a vocazione agricola, quindi, che ha attraversato i decenni. Oggi, però, che rapporti ha l’azienda con il parco e le politiche di conservazione? Ne abbiamo parlato con Donatella Ciofani, agronoma e responsabile tecnica della Tenuta di Alberese, azienda di Ente Terre regionali.

Che tipo di azienda siete?
La nostra è un’azienda agro-zootecnica con una produzione diversificata e integrata: facciamo allevamento allo stato brado, abbiamo coltivazione cerealicole e foraggere, in massima parte dedicata all’alimentazione animale, abbiamo un oliveto secolare per la produzione di olio e produciamo anche vino. Poi c’è la componente dei servizi, avendo la gestione della banca del germoplasma che conserva le specie erbacee autoctone iscritte al repertorio della regione Toscana e le coltiva “in situ” e quella del seme dei riproduttori maremmani. Infine, alcuni casolari sono riservati all’ospitalità agrituristica.

Tori maremmani allo stato brado. Foto di Alberto Pastorelli

Che tipo di allevamento fate?
Qui si possono vedere le razze bovina maremmana ed equina maremmana in purezza, entrambe autoctone della Toscana, tutelate nell’ambito delle politiche di conservazione della agro-biodiversità e fortemente adattate al territorio.
Abbiamo oltre 400 bovini per 700 ettari di pascolo, 40 equini di razza maremmana in purezza e in selezione. Gli animali sono allevati in modo estensivo, con un basso indice di capi per ettaro, a ciclo chiuso vacca-vitello.

Rispettate particolari piani di conservazione per il mantenimento della biodiversità?
La nostra è un’azienda inserita in un parco regionale cui si pratica agricoltura biologica, ma è una risposta fuorviante: siamo l’esemplificazione di come possa essere ribaltato questo paradigma.
Ad Alberese non è l’azienda agricola che si è adeguata agli obiettivi di conservazione del parco, ma è la stessa vocazione agricola del territorio ad avere creato l’habitat che oggi si vuole proteggere. Qui l’azione umana, i differenti ecosistemi e la ricca biodiversità sono tessere di un puzzle perfettamente integrate in un unico sistema complesso.

L’accoglienza agrituristica quanto conta nel bilancio dell’azienda?
Anche se geograficamente siamo collocati in un’area a forte vocazione turistica, la nostra resta principalmente un’azienda agro-zootecnica in cui l’attività di accoglienza è complementare alle altre e marginale in valori assoluti.
Ci consente di mantenere attivi i casolari presenti nella tenuta e coprire le spese di manutenzione degli stabili.
Detto questo, per noi, la presenza turistica ha principalmente un valore legato al racconto dell’identità che stiamo preservando: qui si possono vedere figure come i butteri, si possono conoscere le tradizioni del territorio, si possono esplorare ambienti naturali modificati nei secoli dalla presenza umana.

Butteri nellla tenuta di Alberese. Foto di Alberto Pastorelli

Il vostro è un caso scuola, ma è replicabile altrove?
È un’azienda legata a doppio filo con il territorio, per cui non è un modello replicabile pedissequamente. Ma ogni azienda deve esprimere un legame con il territorio, diventandone presidio e mettendo in connessione gli aspetti di agro-biodiversità con la storia dei propri luoghi.
Un ottimo spunto, però, può essere preso dal nostro modello di allevamento zootecnico, per esempio selezionando razze antiche e autoctone. Queste, spesso, sono più resistenti e più adatte a sfruttare le aree marginali, offrendo risposte interessanti in termini economici.

L’allevamento estensivo riesce a essere remunerativo?
Negli anni abbiamo imparato a non trascurare alcun aspetto della filiera zootecnica, così da abbattere i costi superflui e ricavare un sostentamento dal nostro lavoro.
Innanzitutto, grazie all’allevamento brado è molto alto l’indice di benessere per l’animale. Ciò significa che, crescendo specie rustiche – frutto della selezione nei secoli – e ponendole in condizioni ottimali di vita, minimizziamo le spese di cura.
In secondo luogo, abbiamo accorciato la filiera avendo un macello aziendale e una rivendita, fornendo in loco solo poche realtà. Se da un lato non abbiamo i grandi numeri che interessano la grande distribuzione, dall’altro possiamo raccontare meglio il prodotto e troviamo un consumatore più consapevole e disposto a pagare un prodotto di qualità organolettica superiore.
Non solo. Il nostro cliente è consapevole del lavoro che facciamo ed è disposto a pagare un extra per la tutela dell’ambiente e del territorio, per la conservazione della cultura, per il rispetto etologico che questa forma di allevamento offre agli animali e per gli aspetti legati alla salute.

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Ordine garante per la collettività //www.agronomoforestale.eu/index.php/ordine-garante-per-la-collettivita/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=ordine-garante-per-la-collettivita //www.agronomoforestale.eu/index.php/ordine-garante-per-la-collettivita/#respond Mon, 08 Apr 2024 06:16:12 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68509 Perché un dirigente pubblico, che non ha mai svolto la professione, dovrebbe mantenere l’iscrizione all’ordine degli agronomi e forestali? Solo recentemente sono stato in grado di formulare una risposta compiuta e razionale a questa domanda.

Paolo Baccolo, consigliere CONAF

 

La ragione “istituzionale” della presenza degli Ordini professionali, creati attraverso specifiche leggi istitutive, è fondata sul fatto che l’obbligatoria iscrizione a un albo professionale garantisce la professionalità dell’iscritto attraverso l’esame di Stato, prima, e l’obbligo di formazione continua, poi. A questo aspetto si somma l’impegno personale alla correttezza professionale, espletato attraverso l’obbligo del rispetto del codice deontologico.

Un’unione di due “garanzie” che diventano rassicurazione per la collettività.

 

Le funzioni disciplinari

La funzione di garante per la collettività svolta dagli ordini diventa il fondamento che dà valore alle funzioni disciplinari, sviluppate sia a livello territoriale che a livello nazionale.

Ai Consigli di Disciplina spetta, infatti, il compito di verificare le possibili irregolarità compiute dagli iscritti: la non ottemperanza all’obbligo formativo, comportamenti non coerenti con il codice deontologico, comportamenti considerati lesivi della onorabilità della categoria professionale o del sistema ordinistico.

L’autonomia dei Consigli di Disciplina

Un aspetto non secondario sta nel fatto che i Consigli di Disciplina territoriali sono organi autonomi rispetto al Consiglio dell’Ordine territoriale. Essi nominati direttamente dal Tribunale a garanzia della propria indipendenza e autonomia di giudizio.

Questo particolare non ha solo una rilevanza formale, ma è sostanziale in quanto impone procedure caratterizzate da autonomia di giudizio, assoluta trasparenza delle decisioni, salvaguardia dei diritti sia della “difesa” (dell’iscritto) che della “accusa” (l’eventuale ricorrente o lo stesso sistema ordinistico), la necessità di garantire la totale assenza di cause di incompatibilità o di conflitto di interesse, il rispetto della riservatezza, ecc.

Si comprende bene come le procedure disciplinari, sia a livello territoriale che a livello nazionale, per essere giuridicamente ineccepibili (a prova di ricorso), devono inquadrarsi in uno schema regolamentare il più possibile preciso, che garantisca contemporaneamente sia l’iscritto coinvolto in un procedimento disciplinare che lo svolgimento dei compiti da parte del Consiglio di Disciplina.

Inutile sottolineare, infatti, come l’autonomia operativa e decisionale dei Consigli di Disciplina non possa assolutamente essere confusa con l’arbitrio, seppure in buona fede, e che la valenza delle decisioni che possono essere prese dai Consigli di Disciplina impegna evidentemente anche le responsabilità personali dirette dei rispettivi componenti.

 

Inquadramento legislativo organico

Ciò premesso, le funzioni disciplinari di primo e secondo grado possono contare, a loro supporto, di un inquadramento legislativo che si è sviluppato e sovrapposto negli anni, integrandosi nei contenuti di alcune circolari dell’Ordine Nazionale, tra le quali la circolare nr. 42/2018 “Compendio della professione di dottore agronomo e dottore forestale”, che contiene un’ampia sezione dedicata appunto alle questioni disciplinari.

 

Vista la delicatezza delle decisioni e la complessità della materia, è di grande supporto poter avere regolamenti organici, aggiornati, precisi, completi, coordinati, che possano fungere da effettivo “vademecum”. Un compendio organico, infatti, consente di evitare imprecisioni formali o sostanziali tali da comportare l’annullamento degli atti, delle decisioni e delle procedure, sia da parte dei ricorrenti che da parte degli stessi Consigli di Disciplina.

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Quanti alberi si possono tagliare? //www.agronomoforestale.eu/index.php/quanti-alberi-si-possono-tagliare/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=quanti-alberi-si-possono-tagliare //www.agronomoforestale.eu/index.php/quanti-alberi-si-possono-tagliare/#respond Wed, 10 Jan 2024 18:07:44 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68471 In Italia, la copertura forestale è triplicata in poco più di cento anni. Dopo secoli caratterizzati da deforestazione e utilizzo intenso delle risorse forestali più facilmente raggiungibili e sfruttabili – che hanno causato impoverimento dei suoli e diminuzione della biodiversità animale e vegetale – si è assistito a un’inversione di tendenza. Le aree rurali e montane hanno registrato un progressivo abbandono gestionale, favorito dal massiccio sviluppo industriale e urbano e da un forte disinteresse verso le risorse forestali locali.

Negli ultimi decenni, la ricostituzione ed espansione naturale delle foreste è stata accompagnata da una particolare attenzione alla conservazione e alla valorizzazione degli aspetti naturalistici (oltre il 27% delle foreste italiane gode di un particolare regime di tutela naturalistico), alla conservazione del ruolo di protezione dei versanti e regimazione delle acque (circa l’86% delle foreste italiane è sottoposto a vincolo idrogeologico) e alla tutela del paesaggio (il 100% delle foreste italiane è soggetto a vincolo paesaggistico).

Al tempo stesso, l’Italia è uno tra più importanti Paesi al mondo nella trasformazione e lavorazione della materia prima legno ma, come conseguenza delle dinamiche sociali e ambientali degli ultimi decenni, oltre l’80% della materia prima – utilizzata per scopi edilizi e, soprattutto, energetici – proviene dai mercati esteri, con ovvie problematiche in termini di sostenibilità delle filiere locali.
Attualmente l’Italia ha le condizioni, le potenzialità e la responsabilità di gestire questo capitale naturale in modo attivo e partecipato, consapevole delle conseguenze locali e globali, e attento a mantenerne il ruolo multifunzionale. Ma serve trovare nuove vie, adatte al contesto contemporaneo, per gestire le foreste italiane in modo sostenibile e partecipato.

Rimboschimento di larice in Alta Valle Camonica

Valutare i servizi ecosistemici delle foreste
In questo scenario si è recentemente concluso il progetto di ricerca USEFOL – Approcci innovativi per la valutazione della fornitura di servizi ecosistemici in foreste lombarde, che ha dimostrato scientificamente

  • come prevedere la quantità di legno prelevabile in modo sostenibile,
  • come analizzare costi e benefici ambientali del prelievo forestale
  • come calcolare il carbonio immagazzinabile dalle foreste e dai suoli forestali
  • come calcolare le emissioni di gas serra risparmiate utilizzando il legno in sostituzione di materiali e combustibili maggiormente climalteranti.

I territori pilota sono stati l’Alta Val Camonica e l’Alta Valtellina: qui il progetto ha effettuato una previsione relativa ai prossimi 30 anni, ipotizzando diverse scelte di gestione forestale e scenari climatici dai più moderati ai più severi. Le informazioni elaborate sono servite ad aggiornare i documenti di pianificazione forestale con protocolli, strumenti e risultati delle simulazioni effettuate.

Volume (A, C, D) e specie arborea dominante (B, E) nelle aree di applicazione del progetto, alta Valtellina (A, B) e Val Camonica (D, E).


La stima della biomassa legnosa

La biomassa legnosa in Alta Valtellina e Valcamonica è stata stimata grazie a una procedura suddivisa in tre fasi:

  1. rilievo forestale e stima del volume legnoso a terra;
  2. costruzione di un modello di stima “puntuale” calibrato sui dati rilevati a terra e basato sulle misure di altezza delle foreste ottenute con LiDAR satellitare (missione NASA GEDI);
  3. costruzione di un modello di stima “per pixel” per estendere le stime di volume a scala regionale grazie alle variabili spettrali derivate da immagini satellitari Sentinel-2.

Fasi dell’algoritmo per la stima del volume forestale su tutto il territorio analizzato

 

È stato inoltre realizzato un modello di calcolo denominato “WOody biomass and Carbon Assessment” (WOCAS) che quantifica – secondo un approccio “gain-loss” coerente con le Linee Guida dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) – le masse di legno (e carbonio) esistenti in ciascuna particella forestale e il loro incremento annuale previsto.

Elementi considerati per calcolare il bilancio del carbonio delle foreste

Effetto previsto della selvicoltura preventive nei confronti del comportamento degli incendi boschivi. Il diradamento degli alberi e la riduzione della vegetazione a terra ostacola la propagazione del fuoco e diminuisce la sua intensità, contribuendo a dissipare più efficacemente il calore.

Quali foreste destinare alla produzione di legno
La definizione delle foreste da destinare alla produzione di legno è stata basata su indicatori capaci di esprimere eventuali limitazioni al prelievo del legno, come il rischio di dissesto idrogeologico, la pendenza, la distanza da strade e piste forestali e la presenza di aree naturali protette.
I possibili prelievi di legno sono stati quantificati ipotizzando diverse ipotesi di gestione forestale, dalla mera applicazione del regolamento forestale regionale a una selvicoltura mirata alla prevenzione dei danni da eventi meteorologici estremi  e alla valorizzazione del legno e dei suoi assortimenti utilizzabili per realizzare prodotti di lunga durata.

Esempio di informazioni disponibili per ciascuna particella in un Piano di Assestamento Forestale.

 

Un secondo modello denominato “FOREstry MAchinery chain selection” (FOREMA) è stato realizzato per ottimizzare la scelta del cantiere di meccanizzazione da allestire per il prelievo del legno (raccolta e trasporto) e calcolarne i costi economici e ambientali.

I benefici climatici
Per quanto riguarda i benefici climatici generati dall’uso del legno, si è valutato l’effetto di sostituzione relativo a edifici residenziali con strutture portanti in legno, anziché in cemento armato e acciaio, in funzione della quantità di legno utilizzato nelle due opzioni costruttive e al Displacement Factor (DF), cioè il rapporto fra le emissioni risparmiate optando per l’opzione costruttiva in legno e la quantità di legno necessaria.

Nel complesso, la sostituzione dei materiali costruttivi corrisponde a un risparmio di emissioni climalteranti nell’ordine delle decine di migliaia di tonnellate di CO2 equivalente. La decarbonizzazione delle filiere fa sì che la sostituzione dei materiali negli edifici che verranno costruiti nel breve termine corrisponda a risparmi maggiori.

Emissioni evitate per grado di sostituzione. La linea rossa rappresenta le emissioni associate agli edifici in cemento.

 

Stime per tutti i territori montani
Per estendere queste stime a tutti i territori montani è stato pubblicato sul sito di progetto un foglio di calcolo utile a valutare gli effetti dei prelievi sul carbonio immagazzinato nei prodotti legnosi e sulla sostituzione di materiali edili e combustibili fossili più emissivi.
I gestori di aree forestali possono inserire i prelievi forestali programmati nella loro area, gli impieghi previsti per il legno prelevato, e stimare il possibile beneficio climatico per il periodo 2020-2050.
La crescita attesa delle foreste e i flussi di carbonio da e verso la foresta sono stati simulati con il Carbon Budget Model del Servizio Forestale Canadese, in funzione degli scenari climatici elaborati dal modello MPI-ESM-LR del Max Planck Institute. Il modello è specificatamente pensato per studiare i flussi di carbonio tra i diversi serbatoi forestali e l’atmosfera e può simulare un’elevata varietà di disturbi e trattamenti. Le variazioni attese di temperatura e precipitazioni hanno influito in modo diretto sulla crescita degli alberi (comportando aumenti della produttività dallo 0 al 3% annuo delle conifere e dal 6 al 16% annuo per il castagno e le altre latifoglie), e in modo indiretto attraverso il loro effetto sull’area percorsa dagli incendi e la mortalità degli alberi a causa della siccità.

Andamento previsto del volume del bosco e de prelievi di abete rosso (boschi disetanei a media fertilità) nell’area di studio in diversi scenari climatici e gestionali

 

La selvicoltura preventiva, che mostra prelievi iniziali minori, diventa invece quella più conveniente verso fine simulazione. A parità di clima, la selvicoltura basata sull’applicazione dei regolamenti oggi in vigore è invece la meno conveniente a fine simulazione, in quanto associata a prelievi troppo intensi e non sostenibili.

Effetto del cambiamento di gestione forestale sui diversi serbatoi di carbonio nel periodo 2020-2050, secondo due scenari climatici e due scenari gestionali. In verde gli accumuli di carbonio nella foresta e nei prodotti legnosi, in blu gli effetti di sostituzione (emissioni evitate utilizzando legno al posto di materiali e combustibili basati su fossile).

 

Il miglior compromesso
Secondo le simulazioni del progetto, il miglior compromesso tra assorbimento di carbonio nella foresta, prevenzione dei danni climatici al bosco e effetti di sostituzione delle emissioni grazie ai prodotti legnosi si ottiene applicando interventi di selvicoltura preventiva e un prelievo di legno solo sul 25% della superficie forestale disponibile.

Per tutti gli operatori del settore, il progetto USEFOL ha prodotto due linee guida innovative per la gestione forestale sostenibile in Italia.
La prima fornisce una guida completa sulla gestione forestale per la mitigazione climatica e sulla generazione e il conteggio di crediti di carbonio, alla luce della recente introduzione del Registro pubblico dei crediti generati su base volontaria dal settore agroforestale nazionale.
Il secondo manuale, invece, fornisce un supporto alla redazione dei piani di approvvigionamento di biomassa legnosa per fini energetici, offrendo una panoramica della gestione e pianificazione forestale sostenibile, delle tecniche di stima della disponibilità di biomasse legnose, della meccanizzazione applicabile e delle condizioni in cui l’utilizzo energetico del legno è climaticamente sostenibile.

Per le scuole
A scopo didattico, il team di progetto ha anche realizzato un opuscolo sulla filiera bosco-legno rivolto agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado e un video per la primaria e secondaria di primo grado, dal titolo “La scrivania di larice“: un breve viaggio, immaginario ma al tempo stesso reale, lungo una filiera corta e locale bosco-legno-energia, che racconta in modo semplice e immediato la storia che può nascondere un oggetto di legno proveniente da Gestione Forestale Sostenibile.

Uno dei team di progetto al termine di una giornata di misure in bosco

 

USEFOL
È un progetto finanziato dalla Regione Lombardia nell’ambito del programma per Progetti di ricerca in campo agricolo e forestale.
È coordinato dal prof. Renzo Motta dell’Università di Torino e con la partnership dell’Università di Milano, FIPER (Federazione Italiana Produttori di Energia da Fonti Rinnovabili) e Associazione Consorzi Forestali della Lombardia.

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Alluvioni del torrente Seveso a Milano: aspetti agronomici e di idraulica agraria //www.agronomoforestale.eu/index.php/alluvioni-del-torrente-seveso-a-milano-aspetti-agronomici-e-di-idraulica-agraria/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=alluvioni-del-torrente-seveso-a-milano-aspetti-agronomici-e-di-idraulica-agraria //www.agronomoforestale.eu/index.php/alluvioni-del-torrente-seveso-a-milano-aspetti-agronomici-e-di-idraulica-agraria/#respond Fri, 03 Nov 2023 17:19:29 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68464 Il 31 ottobre 2023, in occasione di un temporale molto intenso, il torrente Seveso è esondato all’interno della città di Milano, allagando i quartieri più settentrionali.
Strano torrente, il Seveso, che nasce quasi al confine con la Svizzera, attraversa la Brianza in una delle aree più urbanizzate d’Italia e all’ingresso del territorio di Milano entra in una canalizzazione sotterranea che lo farà confluire con le acque del Redefossi, anche queste intubate sotto la città. Ricordiamoci anche che il tratto del Seveso che interessa il territorio milanese è stato deviato fin dall’epoca romana.

L’IMPERMEABILIZZAZIONE
La porzione superiore e mediana del Seveso, salvo il primissimo tratto, attraversa un territorio enormemente urbanizzato, che ha occupato praticamente quasi tutti gli spazi disponibili attraverso l’edificato.
Questo ha comportato il progressivo restringimento dell’alveo per guadagnare metri quadri e anche poca o nulla attenzione nel momento della progettazione di manufatti di attraversamento, non adatti a sostenere piene di portata importante.
Da sottolineare, perché spesso non messa sufficientemente a fuoco, l’importanza dell’impermeabilizzazione di quasi tutto il bacino del Seveso: in occasione di piogge appena più intense del normale, tutta l’acqua piovana venga smaltita in superficie senza possibilità di insinuarsi nel terreno, con grande velocità, mettendo rapidamente in crisi le porzioni inferiori del torrente.

INVARIANZA IDRAULICA
È stato proprio attraverso l’esperienza negativa della regimazione del Seveso che in Lombardia è stato introdotto per legge il concetto di “invarianza idraulica”, secondo il quale ogni nuova impermeabilizzazione del suolo deve essere capace di assicurare lo smaltimento delle acque piovane e degli scarichi senza alterare il regime idraulico del corso d’acqua.
Un settore, questo, in cui le competenze professionali di agronomi e forestali integrano con grande efficacia quelle degli ingegneri idraulici, ricorrendo a soluzioni anche sofisticate per assicurare una regimazione complessiva il più possibile “naturale”.

IL CANALE SCOLMATORE
Poiché il Seveso ha una storia di innumerevoli esondazioni ed allagamenti (con centinaia di esondazioni registrate dalla fine dell’800 ad oggi), appena a nord dell’ingresso nel territorio milanese è stato realizzato negli anni ’50, e recentemente rimodernato, il Canale Scolmatore di Nord Ovest: un’imponente opera di canalizzazione destinata a deviare la portata del Seveso in condizioni di piena verso ovest, fino all’immissione nelle acque del Ticino.
Questa opera gioca un ruolo indispensabile per evitare buona parte delle esondazioni o a contenerne gli effetti. Certo non è stata indolore né in quanto a superficie complessiva cementificata, né nell’impatto complessivo sui territori attraversati, oggi potenzialmente a rischio pur non essendo mai stati compresi nell’alveo “naturale” del Seveso.
Certo la qualità delle acque del Seveso non è certo delle migliori, sia a causa delle caratteristiche urbanistiche del territorio attraversato, sia per la scarsissima naturalità delle sue sponde, sia per la quantità enorme di scarichi civile ed industriali (solo parzialmente autorizzati). Questo comporta anche problemi in occasione dello scarico delle acque di piena nel Ticino – attraverso il Canale Scolmatore – le cui acque sono certamente molto più pulite.

INSUFFICIENTE A CONVOGLIARE LA PIENA
Veniamo all’ingresso in Milano, ovvero al suo tratto più critico in assoluto. Come detto, il Seveso si incanala in uno scolmatore sottoterra, in cui confluiscono anche le acque del cavo Redefossi e attraversa il territorio milanese, anche i quartieri più centrali.
Purtroppo, le caratteristiche costruttive del tratto sotterraneo non sono sufficiente a convogliare le portate di piena, in particolare quelle così intense ed importanti degli ultimi anni, sia a causa dell’incremento della loro intensità sia a causa di fenomeni di inghiaiamento della sua sezione che ne riducono ulteriormente la portata. Va anche detto che l’intervento umano si è sbizzarrito anche nel tratto sotterraneo: esempio ne è una imponente struttura longitudinale, destinata a sostenere un palazzo sovrastante collocato esattamente sopra il canale sotterraneo, che certo non facilita il deflusso delle acque, a suo tempo regolarmente autorizzata.
In definitiva cosa succede in occasione di una precipitazione importante e molto concentrata? La massa d’acqua atterra un bacino prevalentemente urbanizzato, non riesce se non parzialmente ad essere assorbita ed intercettata dal terreno naturale ed agricolo, e quindi si riversa molto rapidamente nella rete di condutture di smaltimento, mettendo anche in crisi i depuratori esistenti che sono costretti a rilasciare attraverso i troppo pieno.
Questa massa d’acqua raggiunge rapidamente Milano, distante solo poche decine di km; una parte anche importante viene deviata dal Canale Scolmatore (regolato dall’AiPo agenzia interregionale del fiume Po), che peraltro ha anche lui i suoi limiti di portata massima. Se la deviazione non è sufficiente, questa massa d’acqua arriva all’ingresso del canale sotterraneo e, a questo punto, esonda all’esterno la quantità che non riesce ad essere assorbita dal canale, allagando i quartieri a nord di Milano e arrivando, in alcuni casi, anche ad invadere le gallerie della metropolitana.

COSA SI STA FACENDO
I danni dovuti dalle esondazioni del Seveso possono arrivare, negli episodi più gravi, a molte decine di milioni di euro.
Da qui la decisione assunta diversi anni fa da Regione Lombardia, Comune di Milano e dalle strutture governative dedicate alla riduzione del rischio idrogeologico di realizzare un sistema di grandi vasche di laminazione, dedicate appunto a contenere milioni di metri cubi di acque di piena da rilasciare successivamente, superato l’evento alluvionale. Il progetto, del costo di molte decine di milioni di euro, è in corso di realizzazione e vede la vasca di minori dimensioni pronta al collaudo, mentre gli altri cantieri sono in corso a vario stadio di avanzamento.
Come sempre in questi casi, la scelta dei siti ove realizzare le vasche di laminazione non è stata facile in un territorio dove letteralmente mancano gli spazi liberi. Soprattutto si è dovuto affrontare una difficile fase di confronto con gli abitanti che si troveranno prossimi a questi manufatti, i quali hanno manifestato timori per l’aspetto ambientale e della qualità delle acque del Seveso e dei suoi sedimenti.

COSA POSSONO FARE I DOTTORI AGRONOMI E FORESTALI
Come detto, in casi come questo esistono spazi importanti per le conoscenze tipiche dei dottori agronomi e forestali.
In particolare possono contribuire alla progettazione degli interventi di rinaturalizzazione di sponde e aree golenali, sulla scelta della migliore localizzazione delle vasche di laminazione, nella progettazione delle medesime e delle indispensabili aree verdi di contorno, nella stesura dei capitolati di manutenzioni di queste aree di contorno così come dell’area della vasca di laminazione vera e propria e nei rapporti della vasca di laminazione con le attività agricole e le aree verdi circostanti.

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Da rifiuto a risorsa //www.agronomoforestale.eu/index.php/da-rifiuto-a-risorsa/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=da-rifiuto-a-risorsa //www.agronomoforestale.eu/index.php/da-rifiuto-a-risorsa/#respond Fri, 30 Jun 2023 06:16:05 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68410

Alice Vezzosi si è laureata lo scorso febbraio 2023 nella laurea triennale in Scienze Agrarie con un elaborato “Da rifiuto a risorsa: valorizzazione dei fanghi di cartiera come ammendante in floricoltura e infrastrutture verdi”, discussa con il professor Roberto Cardelli e la dott.ssa Francesca Brezel. Nel suo lavoro, la giovane studentessa ha dimostrato come i fanghi delle cartiere possano venire utilizzati come risorsa nei substrati di coltivazione e nel suolo.

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un cambiamento della nostra società volto sempre più a comprendere l’importanza della sostenibilità, soprattutto nell’ambito dei processi produttivi.

1000 tonnellate all’anno
In materia di rifiuti, le proiezioni sul futuro del pianeta vedono una conversione del modello economico lineare in un modello economico circolare. L’Unione Europea, che ogni anno si trova a gestire più di 2,5 miliardi di tonnellate di rifiuti, in questo senso sta aggiornando la propria legislazione. Per quanto concerne l’industria cartaria, in tutta l’UE, si attesta una produzione di 85 milioni di tonnellate, in particolare l’industria cartaria italiana si è collocata al terzo posto dopo Germania e Svezia.
Questo tipo di industria solo nel 2019 ha prodotto più di 982.400 tonnellate di rifiuti totali, dei quali più del 22% finisce in discarica con costi elevati e un forte impatto ambientale. Solo una bassissima percentuale vede il loro utilizzo in opere di ripristino ambientale.

Il fango di cartiera, un problema da smaltire
Il fango di cartiera deriva dal trattamento meccanico delle acque di lavorazione ed è costituito solo da fibre, senza altre sostanze di carica o contaminanti, poiché il processo di disinchiostrazione che si faceva è ormai obsoleto e si riferiva a un periodo storico dove abbondavano carte stampate. Le cartiere a pura cellulosa producono circa lo 0,1% dei fanghi rispetto alle cartiere che impiegano carta da riciclo.

La produzione di fango si articola nelle seguenti fasi:

  1. le acque defluiscono verso una grossa vasca conica di sedimentazione, dove il fango decanta e viene aspirato e condotto a filtropresse per la spremitura, che ne porta il contenuto residuo di acqua al 50% circa;
  2. tramite nastri trasportatori, il fango filtropressato arriva all’impianto di essiccazione;
  3. appositi impianti rotanti, essiccano il materiale, portandolo ad una umidità residua del 10% circa.

Carta destinata al recupero -(foto di F. Brezel)

Fango in decantazione -(foto di F. Brezel)

Impianto di essiccazione -(foto di F. Brezel)

Materiale essiccato – (foto di F. Brezel)

 

Di questi fanghi ne vengono prodotti circa 48.000 tonnellate all’anno costituendo un consistente problema gestionale per tutto il sistema produttivo cartario.
Le vie più comuni per il loro smaltimento sono lo stoccaggio in discarica o l’incenerimento dove, tuttavia, presentano costi elevati e causano un notevole impatto ambientale, attraverso la produzione di gas e percolato. Inoltre, si ha la perdita di materiale potenzialmente utile in quanto, sono una ricca fonte di carbonio organico ed elementi (tabella 2.2) che risultano potenzialmente utili in termini di energia, fertilizzanti o altre risorse. Risulta quindi importante un loro riutilizzo in un’ottica di un’economia circolare.

La caratterizzazione chimico-fisica
Allo scopo dell’impiego dei fanghi come ammendante di substrati di coltivazione è di fondamentale importanza conoscere la loro caratterizzazione chimico-fisica dei fanghi utilizzati, per cui sono state effettuate le principali analisi.
In base alle caratteristiche riportate in tabella, il fango analizzato può avere un certo effetto alcalinizzante minerale quando applicato al suolo e, soprattutto, quando caratterizzato da scarso potere tampone. Inoltre, presentano una buona conducibilità elettrica e un buon contenuto di sostanza organica, composta principalmente da fibre lignocellulosiche. Questo elevato contenuto fibroso li rende ideali per migliorare le proprietà fisiche (per esempio porosità, capacità di ritenzione idrica, areazione) dei suoli e dei substrati di coltivazione.

Tabella 2.1 – Caratterizzazione chimica

Come riportato nella tabella 2.2 a causa dell’elevato contenuto di carbonio organico e il basso contenuto di azoto totale si hanno valori relativamente elevati del rapporto C/N, indicando quindi la necessità di aggiungere N per microrganismi e piante in caso di utilizzo dei fanghi come ammendante del suolo.
Per quanto riguarda invece l’elevata quantità di Ca può essere dovuta alla presenza di materiali di rivestimento come sbiancanti per carta/opacizzanti, al talco di riempimento da carta riciclata e/o alla presenza di carbonati o idrossidi utilizzati nel processo di finitura della carta. Anche il Na potrebbe essere correlato all’idrossido di sodio presente nel processo di spappolatura.
La presenza di Fe e Cu potrebbe essere collegata agli inchiostri o alle impurità della carta patinata al caolino o di altri materiali inorganici.

Tabella 2.2 – Caratterizzazione chimica dei fanghi di cartiera

Cosa dice la legge
Attualmente il fango, con codice CER [030310], può essere conferito per ripristini ambientali con un limite percentuale massimo del 30% in peso per fanghi al 27% minimo di sostanza secca (DM 22/1998).
Nonostante l’impiego autorizzato, il settore non presenta una richiesta continua, risultando quindi poco affidabile per chi produce tonnellate di rifiuti. Un altro potenziale utilizzo è stato trovato nel settore edilizio dove il fango è utilizzato per la produzione di laterizi.
Studi recenti sono indirizzati anche nel loro possibile impiego nella realizzazione di substrati per infrastrutture verdi.

Il potenziale delle infrastrutture verdi
L’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri (IRET) di Pisa del CNR ha avviato, nell’ambito dei progetti “CARPET Carta Pellet Tetti” e “CAREER dalla Carta alla Pianta”, delle sperimentazioni sul potenziale utilizzo di questi fanghi come componenti dei substrati in tetti verdi estensivi e come componente di substrati per impianti arborei.

Un tetto verde prevede la messa a dimora di vegetazione sulla copertura di un edificio, con lo scopo di migliorarne le prestazioni nei confronti del clima ed eventi meteorici urbani.
Il progetto “CARPET Carta Pellet Tetti” aveva lo scopo di testare l’attitudine dei fanghi di carta pellettati nella realizzazione di substrati di crescita per tetti verdi estensivi per migliore la biodiversità e fornire un habitat indisturbato per gli insetti impollinatori.
I tetti verdi estensivi sono costituiti da un substrato di crescita per le piante di 10-20 cm e viene realizzato con specie adatte che lo rendono ecologicamente vantaggioso per i servizi ecosistemici.
Sono stati impiegati:

  • un substrato di controllo composto da lapillo e compost (ammendante compostato verde);
  • un substrato sperimentale composto costituito da lapillo e fango pellettato
  • un substrato sperimentale con lapillo, fango pellettato e compost.

Su ogni substrato sono state trapiantate circa 30 specie erbacee e Sedum, tipicamente utilizzato per la realizzazione dei tetti verdi. Il substrato con pellet di fango, con lapillo e compost si è dimostrato adatto per incrementare la diversità di specie vegetali presenti rispetto agli altri due trattamenti (Figura 2).

Sperimentazione su tetti verdi estensivi presso Cnr Pisa, nel mese di maggio i Sedum fioriscono e attirano impollinatori (foto di F. Brezel)

All’interno del progetto “CAREER dalla Carta alla Pianta”, è stata valutata l’idoneità dei fanghi di cartiera pellettizzati in miscela con ammendante compostato verde, pomice e zeolite per la costituzione di un substrato di crescita alternativo ad uno tradizionale a base di torba, pomice e zeolite.
Nello studio sono state prese in esame le seguenti specie: Quercus ilex L., Lagerstroemia indica L. e Prunus serrulata Kazan, specie arboree ornamentali comunemente utilizzate in contesti urbani. Dopo due anni di crescita in vivaio, gli alberi sono stati piantati in situ e monitorato lo stato di salute delle piante in post-impianto.
Dai risultati si è evidenziato come l’utilizzo di questo substrato alternativo abbia portato a un buon attecchimento delle piante, con un maggiore contenuto in biomassa vegetale rispetto al substrato di controllo. Inoltre, il substrato alternativo ha garantito una maggiore volume di acqua, un incremento della capacità di ritenzione idrica e un buon contenuto di azoto totale. Tutto ciò si è tradotto nella crescita di piante sane .

Rilievi sull’efficienza fotosintetica su L. indica trapiantata all’Area verde del Cnr di Pisa (foto di F. Brezel)

Dai casi studio analizzati, si evince che i fanghi di cartiera possono avere un concreto potenziale come ammendante del suolo e di substrati di coltivazione.
Altri progetti sperimentali devono essere eseguiti al fine di riuscire a ottenere un adeguato riconoscimento del fango di cartiera come un materiale polivalente in grado di apportare benefici all’ambiente urbano continuamente a rischio e offrire nuove opzioni sostenibili a livello commerciale, in armonia con le norme relative.

Bibliografia di riferimento
Vannucchi, F., Scartazza, A., Scatena, M., Rosellini, I., Tassi, E., Cinelli, F., & Bretzel, F. (2021). De-inked paper sludge and mature compost as high-value components of soilless substrate to support tree growth. Journal of Cleaner Production, 290, 125176

Francesca Bretzel, Dalla carta alla pianta. Il percorso inverso che fa bene all’ambiente, FCRL magazine (2021)

Vannucchi, F., Pini, R., Scatena, M., Benelli, G., Canale, A., & Bretzel, F. (2018). Deinking sludge in the substrate reduces the fertility and enhances the plant species richness of extensive green roofs. Ecological Engineering, 116, 87-96)

Francesca Bretzel, Eliana Tassi, Irene Rosellini, Emna Marouani, Asma Khouaja e Ahmed Koubaa, Characterization of Italian and Tunisian Paper Sludges to employ it as soil amendment, Springer (1-04-22)

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Clima, biodiversità, filiere corte: l’UE contro la deforestazione //www.agronomoforestale.eu/index.php/clima-biodiversita-filiere-corte-lue-contro-la-deforestazione/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=clima-biodiversita-filiere-corte-lue-contro-la-deforestazione //www.agronomoforestale.eu/index.php/clima-biodiversita-filiere-corte-lue-contro-la-deforestazione/#respond Fri, 23 Jun 2023 06:46:46 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68367 La proposta del Regolamento EUDR (è stato approvato in via definitiva dal Parlamento europeo il 19 aprile scorso ed è diventata legge.

Una norma pensata per contrastare l’emergenza climatica e la perdita di biodiversità e che, avviando filiere corte, controllate e virtuose, può diventare un vantaggioso volano per le produzioni nazionali, europee e un’opportunità per le aree interne.

Cos’è EUDR

Il regolamento europeo EUDR nasce con l’intento di impedire che nei Paesi dell’Unione Europea siano commercializzati prodotti che abbiano causato deforestazione o degrado forestale.

Non si parla solo di legname, ma il regolamento comprende anche i prodotti agricoli e di allevamento: cacao, gomma naturale, caffè, olio di palma, mais, soia e pure carne bovina che alimenta l’espansione dei terreni agricoli a discapito delle superfici forestate. E l’elenco europeo include anche i prodotti derivati quali il cuoio o il mobilio, finanche il cioccolato, una serie di derivati dell’olio di palma, la carta e via dicendo.

A partire da fine 2024, quindi, le aziende che vorranno commercializzare i propri prodotti nell’UE dovranno verificare e certificare che né loro né i loro fornitori abbiano provocato deforestazione o degrado delle foreste dopo il 31 dicembre 2020. Con sanzioni rilevanti: quelle che non rispettano le regole di tracciabilità delle catene di fornitura e di trasparenza in materia di sostenibilità potrebbero incorrere in multe pari ad almeno il 4% del loro fatturato annuo nell’UE.

La verifica (la cosiddetta “due diligence”) della catena di approvvigionamento produrrà conseguenze anche sulla produzione nazionale e quella interna all’UE: per molti prodotti, privilegiare l’origine nazionale diventerà la via più semplice ed economica.” – dichiara Marco Bonavia, consigliere CONAF – “Limitando il ragionamento alla filiera del legno, è concreta l’ipotesi di un effetto positivo sulle economie delle aree interne, che potranno valorizzare una materia prima locale anziché tropicale, che con più facilità saprà dimostrare la gestione con criteri rispettosi sia dell’ambiente che delle molteplici funzioni del bosco.”

 

Un problema concreto

Secondo le stime della FAO, tra il 1990 e il 2020 sono scomparsi 420 milioni di ettari di foreste, una superficie più grande dell’UE, che rappresenta circa il 10% del totale delle foreste della Terra. Contemporaneamente, l’Europa è uno dei maggiori importatori di materie prime legate alla deforestazione, tra cui il 50% del caffè mondiale e il 60% di tutto il cacao: due prodotti che, da soli, sono stati responsabili di oltre il 25% della perdita di copertura arborea a livello mondiale nel periodo 2001-2015.

A ciò va aggiunto che, in base a recenti stime su immagini satellitari, quasi 4 milioni di ettari di foresta tropicale sono andati perduti dal 1993 per fare spazio alle piantagioni di gomma nel Sud-Est asiatico. Oggi le foreste colpite sono spesso frammentate e limitate sia nella loro capacità di immagazzinare carbonio e che nella capacità di ospitare popolazioni vitali di specie minacciate, come gli elefanti asiatici e le tigri di Sumatra.

In questo contesto, fa riflettere pensare che i consumi imputabili all’UE sono responsabili di circa il 10% delle perdite di foreste, con l’Italia quale è il secondo maggior consumatore in Europa di prodotti responsabili della distruzione di foreste (36mila ettari di foresta/anno), dietro la Germania con più di 43mila ettari abbattuti ogni anno.

 

Sulle spalle dell’EUTR

Da dieci anni in UE è in vigore il regolamento EUTR (European Union Timber Regulation), che già chiedeva agli operatori di mercato una maggiore consapevolezza sulla questione dei tagli forestali di natura illegale e un loro maggiore impegno nel controllo delle catene di approvvigionamento.

In due lustri, sono stati raggiunti dei risultati positivi, come una diminuzione delle importazioni nell’UE di legname illegale. Ora ci si attende un ulteriore salto qualitativo, con vincoli più stringenti e un perimetro di tutela dei diritti più ampio.

La vera sfida per rendere davvero efficace il nuovo regolamento sarà quella di evitare le criticità evidenziate dall’EUTR.
Secondo le valutazioni di ETIFOR, il testo mostra quadro normativo più chiaro su verifiche e controlli, introducendo livelli minimi per le ispezioni. Inoltre, il parlamento ha ridefinito gli spazi di autonomia dei singoli stati membri, per evitare situazioni di disparità all’interno dell’UE: è stato chiesto che le autorità competenti abbiano risorse sufficienti e che le sanzioni siano proporzionate al danno ambientale causato e al suo valore.

Tra i cambiamenti più innovativi, c’è il coinvolgimento diretto delle agenzie delle dogane degli stati membri, che potranno rilevare eventuali rischi e comunicarli prima che le merci entrino nell’Unione, fino alla possibilità di bloccare o confiscare i prodotti alle frontiere. Inoltre, un nuovo sistema digitale (il cosiddetto “registro”) andrà a semplificare la gestione dei dati (coordinate geografiche e paese di produzione per ciascun prodotto), l’accesso alle informazioni ufficiali, facilitando anche la cooperazione tra autorità doganali e altre istituzioni competenti.

 

Altri punti di vista

I Paesi produttori di olio di palma stanno cercando di reagire, con la Malesia che sta valutando potenziali restrizioni commerciali che rallenterebbero il flusso di prodotti verso l’Europa e rivedrebbero le importazioni dal blocco.

E voci di dissenso vengono dalle associazioni che rappresentano i piccoli agricoltori che coltivano la palma da olio, che rappresentano tra il 35% e il 40% della produzione globale di olio di palma. Per loro, la palma da olio rappresenta la fonte primaria di reddito in un’economia familiare.

Il nuovo regolamento, secondo queste associazioni, rischia di condurre all’esclusione dei piccoli agricoltori dal mercato dell’UE, con il conseguente reindirizzamento delle esportazioni verso Paesi con normative ambientali più deboli, spostando il problema in altre regioni.

C’è il rischio che milioni di piccoli coltivatori di palma da olio vengano esclusi dalla catena di approvvigionamento dell’UE, limitando l’accesso al mercato solo all’olio di palma prodotto dai grandi operatori. Attualmente, i piccoli proprietari sono l’anello più debole della catena di approvvigionamento globale dell’olio di palma, eppure ci si aspetta che siano loro a sostenere gran parte dell’onere di dimostrare che la loro produzione non ha causato deforestazione. Non disponendo di risorse e competenze, devono già affrontare le sfide per conformarsi agli standard di sostenibilità esistenti. L’imposizione di nuovi requisiti di sostenibilità e tracciabilità aggraverebbe ulteriormente la loro esclusione dal mercato dell’UE.” – hanno dichiarato in un documento The Netherlands Oils and Fats Industry (MVO), the Council for Palm Oil Producing Countries (CPOPC) and Solidaridad.

La questione non è solo limitata all’azione di lobbying per evitare dei costi alla filiera. L’industria della palma da olio, nei Paesi produttori, svolge un ruolo fondamentale nel trasformare le condizioni di vita delle comunità rurali, alleviando la povertà grazie alle opportunità di lavoro e migliorando lo sviluppo sociale. In quanto tale, mantenere vitale l’industria della palma da olio può contribuire positivamente al raggiungimento del Green Deal dell’UE, nonché dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile e dei suoi 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs).

 

L’iter legislativo

Le tempistiche per l’entrata in vigore dell’EUDR sono ancora lunghe, si ipotizza che il percorso approvativo si completi per l’inizio del 2025. Dopo la decisione di formale adozione da parte del Parlamento e del Consiglio Europeo, infatti, dovranno passare altri 18 mesi.

Da quel momento in poi, il nuovo regolamento andrà a sostituire il vigente regolamento UE sul legno (EUTR).

Sostenibilità, tutela della biodiversità, commercio equo e riduzione delle disparità sono stati temi discussi anche nel Congresso nazionale di Firenze, a ottobre. Alle imprese, infatti, è anche chiesto di verificare che la propria supply chain rispetti la legislazione del Paese di produzione anche in materia di diritti umani e di diritti delle popolazioni indigene.
L’introduzione di questo regolamento è certamente un segnale positivo, seppure si dovranno affrontare diverse criticità.” – Marco Bonavia, consigliere CONAF

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Edoardo Raccosta.
Laureato nel settembre del 2022 in Progettazione e gestione del verde urbano e del paesaggio, la sua tesi sperimentale ha avuto l’obiettivo di confrontare diversi approcci strumentali al fine di verificare le condizioni di stabilità e la propensione al cedimento di alberi a cui era stato interrato il colletto.

Il verde urbano fornisce molteplici benefici e servizi ecosistemici alle città e alla popolazione riducendo le emissioni di inquinanti antropici, favorendo l’aggregazione sociale, migliorando la salute mentale, incrementando il valore economico di beni immobili e aumentando la biodiversità presente nell’ecosistema urbano. Nell’attuale scenario di cambiamento climatico, gli effetti della presenza delle piante, per esempio sulla regolazione della temperatura, sull’intercettazione delle acque meteoriche (in particolare nel caso di “bombe d’acqua”) e sulla riduzione della velocità del vento, sono di grande importanza per la vita e il benessere delle persone che vivono negli agglomerati urbani. Tuttavia, si devono creare i presupposti giusti affinché le essenze vegetali presenti nelle nostre città esplichino le loro attività biologiche nel migliore dei modi.

39 alberi, un viale: il caso studio

Figura 1. Ricostruzione schematica dei possibili lavori di livellamento della sede stradale eseguiti sul Viale delle Piagge.

Il caso studio preso in esame è rappresentato dal Viale delle Piagge (Pisa), realizzato in seguito ai lavori di sistemazione del nuovo argine che aveva come scopo primario il contenimento dell’Arno nei periodi di piena. Sul viale sono presenti circa seicento esemplari arborei disposti in un doppio filare a prevalenza di tigli nostrani (Tilia platyphyllos), molti dei quali si ipotizza che siano stati messi a dimora subito dopo il completamento dei lavori dell’argine e quindi del viale, risalente alla seconda metà dell’800. Ad oggi, è uno dei luoghi più frequentati e amati, presentandosi indubbiamente come uno dei “polmoni verdi” della città che necessità però di una gestione attenta affinché questa infrastruttura non si trasformi in una minaccia.
Negli ultimi anni, si stanno verificando diversi casi di crolli dei tigli presenti sul viale, con annessi danni a edifici residenziali; le piante sono state interessate da rotture al colletto o ribaltamenti improvvisi. Osservando attentamente gli alberi a dimora e analizzando le dinamiche dei crolli si è notato l’assenza di contrafforti alla base del fusto (nel genere Tilia si manifestano in modo tipico e naturale, specialmente in piante mature) probabilmente imputabili a lavori di livellamento della sede stradale eseguiti negli scorsi decenni, che hanno apportato nuovo terreno (soprattutto nelle porzioni esterne del viale). Ciò ha determinato il progressivo interramento dei colletti e dei contrafforti delle piante a dimora con conseguenti ristagni idrici, elevata umidità e talvolta asfissia (Figura 1). Tutte condizioni ambientali favorevoli allo sviluppo di agenti patogeni fungini i quali determinano marciumi radicali estendendosi anche al colletto e compromettendo la stabilità delle essenze arboree.

Figura 2. Prova di trazione controllata in fase di svolgimento.

L’obiettivo di questa tesi di laurea è stato quello di condurre opportune indagini fitostatiche per valutare la stabilità di 39 alberi di un tratto del Viale delle Piagge situati nei filari esterni, molti dei quali non presentano contrafforti a causa, probabilmente, dei lavori di livellamento citati precedentemente. A questo scopo, si è reso necessario stabilire un protocollo standardizzato affinché tutte le analisi strumentali fossero condotte con modalità riproducibili nel medesimo sistema su ogni albero e con l’obiettivo di ottenere risultati uniformi e rappresentativi della problematica.

Un protocollo ad hoc
Il protocollo operativo è stato messo a punto dopo una serie di test adottando diversi approcci strumentali quali tomografo sonico, il dendropenetrometro e la prova di trazione controllata o “pulling test”; quest’ultimo è risultato essere il più idoneo per esaminare la tenuta radicale e l’elasticità delle fibre legnose. Il “pulling test” prevede l’applicazione di un carico controllato (simulazione di una raffica di vento) attraverso un paranco ed un cavo d’acciaio (Figura 2); per la registrazione dei dati utili a formulare una valutazione oggettiva ci si avvale di sensori estremamente sensibili installati sul fusto della pianta in esame (Figura 3). I dati raccolti in campo vengono rielaborati mediante un software dedicato all’interno del quale si inseriscono alcuni parametri come ad esempio l’altezza della pianta, il diametro del fusto, le dimensioni della chioma e la velocità del vento. Quest’ultimo dato, di fondamentale importanza poiché l’intero processo di analisi dei dati si basa su questo specifico carico, è stato ricavato tramite una ricerca storica degli eventi ventosi registrati nei pressi dell’area studio prelevati dalla stazione meteorologica della Regione Toscana.

La valutazione finale di ogni pianta viene fornita mediante l’attribuzione di una Classe di Propensione al Cedimento (CPC) proposte dalla Società Italiana di Arboricoltura che è stabilita, in questo caso, basandosi principalmente sui risultati ottenuti dalle prove di trazione. La classificazione di propensione al cedimento degli alberi è composta da 5 classi, ossia da A a D; una pianta in classe A non presenta al momento dell’indagine difetti significativi tali da ritenere che il fattore di sicurezza dell’albero si sia ridotto. Al contrario, una pianta in classe D ha ormai esaurito il suo fattore di sicurezza e pertanto è previsto l’abbattimento.
I risultati ottenuti hanno evidenziato che il 23% delle piante esaminate ricadono in una CPC estrema per cui è previsto l’abbattimento, il 23% (CPC = C) necessitano di un controllo visivo e strumentale periodico, con cadenza annuale. Infine, il restante 54% risulta avere un elevato grado di stabilità (CPC = A o B). Le piante ricadute nella classe estrema (CPC = D) sono state oggetto di ulteriore approfondimento diagnostico strumentale eseguendo una valutazione qualitativa del legno attraverso il tomografo sonico. Le tomografie effettuate all’apparato radicale e al colletto ove si riteneva necessario e possibile, hanno confermato l’esito ottenuto con le prove di trazione; scarsa capacità di ancoraggio delle radici a seguito di processi di degradazione dell’intero apparato e del colletto.

Figura 3. Sensori impiegati per svolgere la prova di trazione.

In molti casi, gli alberi nelle città sono costretti a vegetare in condizioni estreme, soggetti a continui stress termici, idrici, meccanici e molti altri. Il protocollo messo a punto per questo specifico caso si è rivelato essere attendibile, in grado di uniformare un giudizio finale complessivo e inquadrare al meglio la problematica descritta precedentemente. Questo protocollo operativo potrebbe essere adottato anche al di fuori del contesto specifico per cui è stato formulato; in particolar modo per verificare la stabilità degli alberi in seguito a importati lavori sulla sede stradale o limitrofi alla zolla radicale. Spesso, quando vengono eseguiti degli scavi, si danneggiano o in casi più gravi vengono recise intere porzioni dell’apparato radicale andando a stravolgere e compromettere l’intera stabilità di una pianta. Attraverso questo lavoro di tesi dove si sono sperimentati diversi approcci diagnostici, le prove di trazione si sono rivelate essere lo strumento diagnostico più idoneo per verificare problematiche all’apparato radicale, sia di natura meccanica (danni meccanici) che fitosanitaria (agenti patogeni fungini).

Sitografia e Bibliografia

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