Zootecnia – Coltiv@ la Professione //www.agronomoforestale.eu agronomi e forestali Fri, 24 May 2024 12:26:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.3.5 Ribaltare il paradigma //www.agronomoforestale.eu/index.php/ribaltare-il-paradigma/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=ribaltare-il-paradigma //www.agronomoforestale.eu/index.php/ribaltare-il-paradigma/#respond Fri, 24 May 2024 10:25:52 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=68537 A ridosso del mare, tra le colline coltivate, le pinete litoranee e la macchia mediterranea, i bianchi mantelli dei bovini maremmani tratteggiano il paesaggio agricolo. Siamo ad Alberese , nella Maremma toscana a sud di Grosseto, dove si trova una delle maggiori aziende in Europa condotte con il metodo dell’agricoltura biologica.

L’azienda agricola prima del parco
Il parco regionale della Maremma nasce nel 1975. Si estende per quasi 9.000 ettari tra il fiume Ombrone fino al paese di Talamone. Un ambiente variegato poiché, all’interno del suo perimetro, si trovano pinete, la costa scoscesa e le dune della spiaggia, le aree di wilderness alternate alle coltivazioni.
In realtà, la storia della produzione agricola nella Tenuta di Alberese nasce ben prima dell’istituzione del Parco, risalendo addirittura alla metà del XIX secolo, quando il Granduca di Toscana, Leopoldo di Lorena, acquistò e ampliò la Tenuta, investendo notevoli risorse finanziarie e umane per migliorare la produttività dell’azienda.

Il parco della Maremma. Foto di Alberto Pastorelli

Si è così creato un territorio in cui l’azione umana, dalle bonifiche alle scelte colturali, finanche alla selezione delle specie di allevamento si è intrecciata con la tutela della biodiversità e la cura degli ecosistemi. Qui, infatti, è visibile l’intervento umano, ideato a scopi produttivi, ma che ha lasciato un’eredità tale – in termini di biodiversità – da diventare la base fondativa per l’istituzione del parco.
Per esempio, i seicento ettari di pineta fra le colline dell’Uccellina e il fiume Ombrone non sono naturali, ma sono stati realizzati dai Lorena come una “piantagione di pini”. L’obiettivo del Granduca era chiaro: produrre pinoli e sfruttare i terreni vicino al mare, poco adatti all’agricoltura e all’epoca ricchi di acquitrini e paludi.

Un parco di origine antropica a vocazione agricola, quindi, che ha attraversato i decenni. Oggi, però, che rapporti ha l’azienda con il parco e le politiche di conservazione? Ne abbiamo parlato con Donatella Ciofani, agronoma e responsabile tecnica della Tenuta di Alberese, azienda di Ente Terre regionali.

Che tipo di azienda siete?
La nostra è un’azienda agro-zootecnica con una produzione diversificata e integrata: facciamo allevamento allo stato brado, abbiamo coltivazione cerealicole e foraggere, in massima parte dedicata all’alimentazione animale, abbiamo un oliveto secolare per la produzione di olio e produciamo anche vino. Poi c’è la componente dei servizi, avendo la gestione della banca del germoplasma che conserva le specie erbacee autoctone iscritte al repertorio della regione Toscana e le coltiva “in situ” e quella del seme dei riproduttori maremmani. Infine, alcuni casolari sono riservati all’ospitalità agrituristica.

Tori maremmani allo stato brado. Foto di Alberto Pastorelli

Che tipo di allevamento fate?
Qui si possono vedere le razze bovina maremmana ed equina maremmana in purezza, entrambe autoctone della Toscana, tutelate nell’ambito delle politiche di conservazione della agro-biodiversità e fortemente adattate al territorio.
Abbiamo oltre 400 bovini per 700 ettari di pascolo, 40 equini di razza maremmana in purezza e in selezione. Gli animali sono allevati in modo estensivo, con un basso indice di capi per ettaro, a ciclo chiuso vacca-vitello.

Rispettate particolari piani di conservazione per il mantenimento della biodiversità?
La nostra è un’azienda inserita in un parco regionale cui si pratica agricoltura biologica, ma è una risposta fuorviante: siamo l’esemplificazione di come possa essere ribaltato questo paradigma.
Ad Alberese non è l’azienda agricola che si è adeguata agli obiettivi di conservazione del parco, ma è la stessa vocazione agricola del territorio ad avere creato l’habitat che oggi si vuole proteggere. Qui l’azione umana, i differenti ecosistemi e la ricca biodiversità sono tessere di un puzzle perfettamente integrate in un unico sistema complesso.

L’accoglienza agrituristica quanto conta nel bilancio dell’azienda?
Anche se geograficamente siamo collocati in un’area a forte vocazione turistica, la nostra resta principalmente un’azienda agro-zootecnica in cui l’attività di accoglienza è complementare alle altre e marginale in valori assoluti.
Ci consente di mantenere attivi i casolari presenti nella tenuta e coprire le spese di manutenzione degli stabili.
Detto questo, per noi, la presenza turistica ha principalmente un valore legato al racconto dell’identità che stiamo preservando: qui si possono vedere figure come i butteri, si possono conoscere le tradizioni del territorio, si possono esplorare ambienti naturali modificati nei secoli dalla presenza umana.

Butteri nellla tenuta di Alberese. Foto di Alberto Pastorelli

Il vostro è un caso scuola, ma è replicabile altrove?
È un’azienda legata a doppio filo con il territorio, per cui non è un modello replicabile pedissequamente. Ma ogni azienda deve esprimere un legame con il territorio, diventandone presidio e mettendo in connessione gli aspetti di agro-biodiversità con la storia dei propri luoghi.
Un ottimo spunto, però, può essere preso dal nostro modello di allevamento zootecnico, per esempio selezionando razze antiche e autoctone. Queste, spesso, sono più resistenti e più adatte a sfruttare le aree marginali, offrendo risposte interessanti in termini economici.

L’allevamento estensivo riesce a essere remunerativo?
Negli anni abbiamo imparato a non trascurare alcun aspetto della filiera zootecnica, così da abbattere i costi superflui e ricavare un sostentamento dal nostro lavoro.
Innanzitutto, grazie all’allevamento brado è molto alto l’indice di benessere per l’animale. Ciò significa che, crescendo specie rustiche – frutto della selezione nei secoli – e ponendole in condizioni ottimali di vita, minimizziamo le spese di cura.
In secondo luogo, abbiamo accorciato la filiera avendo un macello aziendale e una rivendita, fornendo in loco solo poche realtà. Se da un lato non abbiamo i grandi numeri che interessano la grande distribuzione, dall’altro possiamo raccontare meglio il prodotto e troviamo un consumatore più consapevole e disposto a pagare un prodotto di qualità organolettica superiore.
Non solo. Il nostro cliente è consapevole del lavoro che facciamo ed è disposto a pagare un extra per la tutela dell’ambiente e del territorio, per la conservazione della cultura, per il rispetto etologico che questa forma di allevamento offre agli animali e per gli aspetti legati alla salute.

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Conoscere le emissioni in agricoltura //www.agronomoforestale.eu/index.php/conoscere-le-emissioni-in-agricoltura/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=conoscere-le-emissioni-in-agricoltura //www.agronomoforestale.eu/index.php/conoscere-le-emissioni-in-agricoltura/#respond Thu, 18 Jun 2020 14:38:12 +0000 //www.agronomoforestale.eu/?p=67809 di Manuel Bertin

Nella lotta ai cambiamenti climatici e alla sostenibilità ambientale, l’agricoltura gioca un ruolo rilevante.
Come intervenire? Che priorità darsi?

Eleonora Di Cristofaro

A livello globale le emissioni imputabili al comparto agricolo rappresentano quasi un quarto del totale e crescono dello 0,7% all’anno, per soddisfare una domanda alimentare in continuo aumento.
In Italia, invece, il contributo al bilancio delle emissioni di gas serra si sta riducendo, ma volendo rispettare la tabella di marcia imposta dalla Strategia di decarbonizzazione, ossia emissioni nette pari a zero al 2050, questo non è sufficiente. Le domande da farsi, quindi, diventano: come intervenire? Che priorità darsi?
La prima cosa da fare, per capire come agire, è avere un quadro definito della situazione, che consenta di avere una lettura accurata dello scenario per il successivo intervento.
A questo scopo, ISPRA redige l’inventario nazionale che raccoglie i dati delle emissioni di gas serra di quasi due decenni, con un focus anche su quelle del comparto primario. Il documento aggiornato con i dati del 2018 è stato presentato qualche settimana fa, così abbiamo approfondito il tema con Eleonora Di Cristofaro, referente nazionale di ISPRA per il settore agricoltura nell’ambito dell’inventario nazionale delle emissioni di gas serra e inquinanti atmosferici.

Ci descrive la situazione attuale?
Oggi, il settore agricoltura rappresenta il 7% circa delle emissioni nazionali di gas serra, pari a circa 30 milioni di tonnellate di CO2, composte in gran parte da metano (64%) e protossido di azoto (35%), e da una piccola percentuale la CO2 (1%). Queste sono originate in gran parte (79%) dagli allevamenti, mentre il 10% proviene dall’uso dei fertilizzanti sintetici.
Ai gas serra propriamente detti, si aggiunge anche l’ammoniaca, di cui il settore agricolo produce il 94% delle emissioni nazionali. Un composto che per l’80% si origina dagli allevamenti, in special modo quelli bovini, suini e avicoli.
Questa sostanza contribuisce all’eutrofizzazione e all’acidificazione degli ecosistemi e alla formazione di particolato secondario. Infatti, la direttiva europea Nec ne fissa i limiti e pone degli obiettivi di riduzione: rispetto al 2005, per l’ammoniaca sono -5% al 2020 e -16% al 2030 e per il PM2.5 sono -10% al 2020 e -40% al 2030.

L’origine delle emissioni di gas serra in agricoltura.
L’origine delle emissioni di ammoniaca in agricoltura.

Come giudica la situazione?
Col regolamento Ue Effort Sharing, l’Europa si è imposta di ridurre le emissioni complessive di gas serra dei settori ES (che sono trasporti, residenziale, agricoltura, industria non-ETS e gestione dei rifiuti) del -13% entro il 2020 e del -33% entro il 2030, sempre rispetto ai valori del 2005.
Per il 2020 possiamo dire che l’obiettivo è stato raggiunto, per il 2030 bisognerà fare degli sforzi aggiuntivi. In questo quadro, le emissioni di gas serra del settore agricoltura sono diminuite del 13% rispetto agli anni ’90. È il risultato della riduzione del numero di capi, del minore impiego di fertilizzanti azotati sintetici (-41%, ma con l’urea scesa solamente del 13%), della trasformazione nella gestione degli allevamenti e, infine, del recupero del biogas a fini energetici.
Le emissioni di ammoniaca invece, in questi trent’anni, si sono ridotte del 23%.

Negli ultimi anni, anche le emissioni in agricoltura sono sotto la lente del legislatore.
Nell’inventario nazionale delle emissioni sono più rilevanti i contributi del settore energetico, con una percentuale pari all’ 80,5%, e del settore dei processi industriali, con l’8,1% delle emissioni. È normale, quindi, che il legislatore abbia preferito iniziare ad attuare politiche di riduzione delle emissioni partendo da questi settori.
Negli anni più recenti, però, c’è stata la necessita di allargare lo spettro d’azione e così anche il comparto agricolo è stato coinvolto nelle politiche di sostenibilità, con interventi mirati a ridurre sia le emissioni di inquinanti che quelle dei gas serra.

Dove e come è possibile intervenire?
L’agricoltura è il settore con cui produciamo il cibo, per cui bisogna intervenire con accortezza.
Partendo dai dati che abbiamo, sappiamo che gli allevamenti originano i 4/5 delle emissioni ed è logico iniziare da qui per ottenere impatti sensibili.
Scomponendo le emissioni per tipologia di fonte, ai primi tre posti troviamo la fermentazione enterica (47 %), l’utilizzo di fertilizzanti sintetici e altre fonti di apporto di azoto ai suoli agricoli (28%) e la gestione delle deiezioni (19%).
Per ridurre le emissioni, quindi dobbiamo lavorare sui sistemi di allevamento, in particolare migliorando quattro fasi: l’alimentazione, i ricoveri, lo stoccaggio e lo spandimento. Per esempio, nella dieta, la sostituzione di una parte dei foraggi con i concentrati può aumentare la digeribilità e ridurre le emissioni di metano (emissioni di gas serra). Oppure, con un’alimentazione a minor contenuto proteico avremo un minore rilascio della componente azotata nelle deiezioni.
Passando alle stalle, si può intervenire rinnovando le lettiere, rimuovendo frequentemente le deiezioni e riprogettando la gestione degli spazi.
Per gli stoccaggi è fondamentale la copertura delle deiezioni e il recupero di biogas nei digestori anaerobici, due interventi che consentono di ridurre le emissioni sia di gas serra che di ammoniaca.
Arrivando al campo, c’è da stimolare la sostituzione dell’urea con i fertilizzanti con diverso tenore di azoto o con i fertilizzanti organici. In secondo luogo, adottando tecniche di agricoltura di precisione mirate sulle specifiche esigenze nutritive delle colture, sul tenore dei nutrienti del suolo e sull’apporto di nutrienti degli altri fertilizzanti, sulla migliore distribuzione del fertilizzante si potranno ridurre le emissioni di ammoniaca e di gas serra perché migliore sarà l’efficienza d’uso dell’azoto.


L’intervento di Eleonora di Cristofaro in cui sono presentati i dati relativi alle emissioni in agricoltura

Per approfondire
Il quadro italiano sull’andamento dei gas serra e degli inquinanti atmosferici dal 1990 al 2018 è un’indagine basata su due rapporti, il National Inventory Report 2020 e l’Informative Inventory Report 2020.

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