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Per comprendere il significato e il peso che le aziende agricole “etniche” assumono nel tessuto economico e nelle dinamiche di integrazione degli immigrati stessi, non è sufficiente soffermarsi all’analisi della presenza degli imprenditori stranieri nel Paese, ma è necessario approfondire i processi di territorializzazione che queste attività innescano.
La letteratura scientifica ha coniato alcune categorie come “ethnic landscape”, utilizzate per analizzare i fenomeni di territorializzazione apportati dalle comunità straniere nello spazio urbano. Alla luce di recenti indagini è necessario, però, rimodulare tale lettura volgendo lo sguardo verso le aree non urbane in cui la recente formazione di nicchie di mercato “etniche” nel settore agro-alimentare laziale ha evidenziato la creazione di aziende “innovative” che coltivano prodotti alloctoni e creano nuovi paesaggi.
Il paesaggio, risultato dell’azione attuata contemporaneamente dalla natura e dall’uomo sul territorio, è espressione del legame intrattenuto con esso dalle società che l’hanno costruito. Ogni paesaggio riflette la collettività che lo ha prodotto e ogni comunità proietta in esso valori, culture, identità e alterità, saperi e pratiche, che la caratterizzano. In questa dialettica il paesaggio diventa, quindi, luogo della quotidianità e, al tempo stesso, contesto che esprime il modo in cui un gruppo sociale si trasformerà nel futuro. Negli ultimi decenni, proprio mediante un’attenta lettura del paesaggio, gli studi geografici hanno messo in luce l’assetto multiculturale che sempre più sta caratterizzando la società italiana grazie ai flussi migratori, dapprima visibile nelle realtà urbane e oggi anche nel paesaggio agricolo. La mobilità, infatti, è uno dei fondamentali fattori umani di modificazione del paesaggio.
Come ricorda Eugenio Turri, «la mobilità dell’uomo è il fattore stesso dell’umanizzazione terrestre. Essa muove vasti e intensi scambi che avvengono tra le aree lontane e diverse, responsabili di quel tessuto umanizzante che sta avvolgendo la superficie terrestre. La caratteristica di tali scambi sta nel fatto che essi oggi introducono elementi germinati in un certo paesaggio, quindi espressione di una precisa società e di una precisa cultura».
La presenza straniera nell’agricoltura laziale
Rispetto al settore agricolo, il numero di persone di nascita straniera impiegate nel 2015 nell’area laziale, è di 21.580 ossia il 7,1% del totale nazionale. In questo senso, i rapporti precedentemente descritti mutano ed è il territorio di Latina a evidenziarsi per i numeri più alti. Il Pontino ha visto, infatti, impiegate in agricoltura 10.498 persone di origine straniera nel 2015 ossia il 3,5% del totale nazionale. Seguono l’area romana con 6.574 occupati nel settore nati all’estero, 2,2% del totale, la provincia di Viterbo con 3.256 e quella di Rieti con 763 e infine, quella di Frosinone con 489 persone impiegate, pari allo 0,2% del totale nazionale.
Questi dati dimostrano la vocazione prevalentemente agricola della provincia pontina, caratterizzata da un sistema imprenditoriale composto da piccole e medio-grandi imprese con elevato tasso di specializzazione colturale e tecnologico, presenti soprattutto lungo la linea costiera e nei pressi del mercato ortofrutticolo di Fondi, uno dei maggiori mercati ortofrutticoli d’Italia e d’Europa. Il periodo di impiego in agricoltura nel Lazio, per effetto del clima relativamente mite e stabile, è sostanzialmente annuale, anche quando l’articolazione del lavoro tra i settori produttivi è di tipo stagionale.
Secondo i dati forniti dal Report L’Agricoltura del Lazio in cifre 2014, nel Lazio la zootecnia impiega il numero maggiore di immigrati con 15.071 addetti, in particolare nelle attività che riguardano il governo della stalla e la mungitura. I lavoratori provengono in maggioranza dall’India e dal Bangladesh, fatta eccezione per la tosatura in cui sono specializzati Macedoni e Albanesi.
Il secondo comparto per numero di occupati impiegati è l’orticolo, con circa 2.100 stranieri, di cui 524 extracomunitari, provenienti prevalentemente dal Marocco. I lavoratori stranieri impiegati nell’ortovivaismo sono circa 2.000 unità, in particolar modo nei settori della semina con 1.226 addetti e della recisione degli orti con 760 operai che provengono da Albania, Marocco, Polonia e Romania. Tra le altre attività agricole, la maggiore richiesta di manodopera proviene dalle fasi di raccolta degli ortaggi.
I lavoratori impiegati nell’agriturismo e nel turismo rurale provengono dalla Romania e dall’India, rispettivamente, 666 e 416 occupati, per una durata annuale, in particolare nei lavori di cucina e nel servizio ai tavoli. Anche nelle attività di trasformazione e commercializzazione la manodopera straniera risulta impiegata per l’intero anno. Solamente nelle attività di selezione e confezionamento dei settori oleario e vinicolo, l’impiego di manodopera è limitata a pochi mesi dell’anno. Per quanto riguarda la nazionalità dei dipendenti nel settore della trasformazione dei prodotti agricoli, la maggioranza dei lavoratori è di origine romena, con quote significative di provenienza da Albania, Macedonia e, limitatamente alla trasformazione dei prodotti lattiero-caseari, dall’India. Nel settore della commercializzazione sono impiegati, oltre che romeni e albanesi, anche polacchi, marocchini e tunisini.
Oltre a una preponderanza straniera nel lavoro agricolo si sta affermando nel medesimo settore anche il fenomeno dell’imprenditoria etnica.
Non solo dipendenti: le imprese agricole etniche
Con il termine “impresa etnica” si fa riferimento a tutte quelle aziende in cui il titolare, nel caso delle ditte individuali, o la maggioranza dei soci degli amministratori e dei detentori delle quote di proprietà, nel caso di imprese a base societaria, sono nati all’estero. La distinzione rispetto all’impresa autoctona è individuabile secondo alcuni autore nella natura delle attività svolte semplicemente perché l’imprenditore è un immigrato oppure nell’appartenenza ad una comunità contraddistinta da un modello culturale e da un orientamento all’imprenditoria diverso da quelli della società ospite. La propensione al self-employment di alcuni gruppi di immigrati è, quindi, posta in relazione al valore attribuito nella società di origine alla scelta imprenditoriale, alla diffusa presenza di role model e allo status sociale attribuito all’imprenditore.
Con specifico riferimento al settore agricolo, secondo i dati a disposizione, nel I trimestre 2015 nella provincia di Roma su un totale di 16.626 imprese esistenti nel settore “Agricoltura, silvicoltura e pesca”, 187 sono riferibili a persone straniere comunitarie e 265 a stranieri extracomunitari, prevalentemente di nazionalità rumena, bangladesi e tunisina. Queste aziende si concentrano maggiormente nell’area dei Castelli Romani e lungo il litorale dove si occupano della produzione di riso, ortaggi e meloni, radici e frutti oleosi. Nella provincia di Latina, le imprese agricole “entiche” registrate al I trimestre 2015 sono un totale di 300: 77 aziende condotte da stranieri comunitari e 223 aziende di stranieri extracomunitari.
Per quanto riguarda la nazionalità, le 291 imprese attive sono condotte in prevalenza da persone di origine indiana e tunisina, localizzate nell’Agro Pontino e impegnate nella coltivazione di ortaggi, frutta, tuberi e cereali.
Nuove culture con nuove colture
Le imprese agricole a conduzione straniera sono ancora in numero esiguo, come contenuto è il numero di indagini sull’argomento. Tra i pochi studi avviati, la ricerca condotta da Flavia Cristaldi e Sandra Leonardi dal titolo Tra importazioni e filiere corte: agricoltura e imprenditoria etnica nell’area laziale mette bene in evidenza le caratteristiche e la distribuzione delle imprese agricole a conduzione straniera sorte nel Lazio.
Le studiose hanno osservato come «la recente formazione di nicchie di mercato “etniche” nel settore agro-alimentare laziale non segue il processo di “successione ecologica”».
Tali imprese non occupano, cioè, quelle posizioni lasciate “libere” da aziende locali fallite, ma mostrano la capacità di inserirsi nel mercato agricolo grazie all’innovazione introdotta per mezzo della coltivazione di prodotti esotici. In secondo luogo, dall’indagine è emersa una specifica distribuzione territoriale. Le imprese agricole a conduzione straniera riscontrano difficoltà di inserimento e di crescita nell’area nordovest della Capitale dove le medio e grandi aziende italiane, sviluppatesi su un’area bonificata, rappresentano un sistema a maglie larghe cioè una struttura produttiva in cui la circolazione di prodotti inusuali è più difficile e lenta. Anche a est di Roma è attestato un limitato numero di queste imprese a causa della mancanza di stranieri che necessitano per le proprie abitudini alimentari di tali prodotti. In termini economici, cioè, nella zona orientale l’assenza di domanda non produce e avvia l’offerta. La situazione è nettamente diversa a sud dove numerosi fattori contribuiscono a facilitare nell’area la nascita di questa tipologia di imprese. Le caratteristiche pedologiche e climatiche della Pianura Pontina, la presenza di un bacino di acquirenti cioè le collettività straniere, l’ottimale rete viaria e ferroviaria che connette la pianura con gli altri mercati della regione, agevolano l’apertura di nuove aziende orientate al mercato etnico.
La ricerca di Flavia Cristaldi e Sandra Leonardi si è caratterizzata anche da un’indagine sul campo con l’intento di individuare alcune di queste aziende agricole gestite da stranieri. Nel complesso lavoro di localizzare di tali imprese, spesso prive di sito internet o di cartelli pubblicitari, ne sono state scovate due: un’azienda situata al confine tra il Comune di Ardea e di Aprilia e la seconda localizzata nell’area compresa tra il Comune di Terracina e di Sabaudia. Entrambe le imprese sono condotte da un gruppo di persone provenienti dal Bangladesh. L’innovazione introdotta da queste è data principalmente dalla tipologia di prodotti coltivati. Tra le colture, infatti, è facile trovare specie alloctone che sino a qualche anno fa giungevano in Italia solo grazie alle importazioni. Gli imprenditori agricoli si dedicano, così, alla coltivazione di ortaggi o frutta rari e pregiati perché provenienti spesso da luoghi lontani, con l’obiettivo di rispondere alle esigenze delle tradizioni agroalimentari delle comunità a cui appartengono.
Nel dettaglio, tra i prodotti agricoli coltivati da queste aziende si riscontrano l’okra e l’ampalaya. La prima, conosciuta anche con il nome di “gombo”, è una pianta che si sviluppa principalmente in climi temperati, tropicali e caldi. È molto comune in Africa, in India, nel Medio Oriente e in Sud America. Questa pianta produce dei baccelli verdi commestibili simili a dei peperoncini ed è utilizzata dalla comunità filippina, bangladesh, indiana, cinese e pachistana, ma anche nella cucina albanese, greca, bulgara, turca e brasiliana. L’ampalaya è, invece, una pianta rampicante tropicale e sub-tropicale della famiglia delle curcubitacee, diffusa in Asia e in Africa.
Le sue foglie e il suo frutto, un ortaggio molto simile a una zucchina, sono tutti commestibili e vengono utilizzati nella cucina thailandese, giapponese, filippina, vietnamita e indiana.
Queste imprese non si limitano alla sola produzione, ma provvedono alla vendita diretta nei piccoli mercati a chilometri zero, o ad altri operatori che li trasportano e vendono nel mercato romano dell’Esquilino oppure giungono al mercato ortofrutticolo all’ingrosso di Fondi e al mercato ortofrutticolo di Brescia. Quest’ultimo nodo commerciale, fino a pochi anni fa, rappresentava il principale punto d’ingresso in Italia di frutta e ortaggi esotici che venivano, poi, spediti verso l’area romana.
Le studiose hanno, dunque, individuato una nuova direttrice di produzione e trasporto dei prodotti, notando che «oggi si comincia a registrare un movimento inverso rispetto al passato perché esso si genera nelle aziende della Pianura Pontina e raggiunge il nord Italia senza bisogno di alcuna importazione dall’estero. Le precedenti filiere transnazionali assumono ora nuovi profili e, escludendo intermediari, si accorciano e permettono la vendita di prodotti più freschi sui mercati locali. Ma nell’ultimo periodo sembra, addirittura, che nascano nuove filiere transnazionali che hanno il luogo di produzione in Italia e il mercato all’estero. Così gli spinaci cinesi, l’ampalaya, l’okra e altri prodotti coltivati nella Pianura Pontina vengono trasportati con il treno o i furgoni frigoriferi oltre confine per essere venduti alle comunità immigrate presenti al di là delle Alpi».
Conclusioni
Fortemente influenzati dai casi di cronaca, spesso quando si pensa ai lavoratori stranieri nel settore primario si fa riferimento agli operai stagionali occupati periodicamente come braccianti agricoli e di frequente associati a episodi di sfruttamento. Benché questa presenza sia significativa, gli stranieri trovano nel settore agricolo anche la possibilità di avviare un miglioramento della propria condizione economica e sociale, diventando imprenditori. Si tratta di un fenomeno dalle dimensioni ancora ridotte e di difficile localizzazione che tuttavia mostra segnali di crescita perché strettamente legato ai percorsi di stabilizzazione delle collettività immigrate.
Prima di tutto, l’avvio di un’attività imprenditoriale “etnica” è il risultato di un processo attraverso cui nuove opportunità di business sono scoperte, valutate e realizzate. Allo stesso tempo, significa possedere un ampio bagaglio di informazioni che vanno dall’iter burocratico richiesto per l’apertura di un’azienda alla compilazione della documentazione necessaria, dalla conoscenza delle caratteristiche del territorio alle competenze pratiche per il suo ottimale sfruttamento. Introducendo, poi, un’innovazione costituita dai prodotti coltivati, queste aziende possono essere intese come fattori endogeni capaci di aumentare la competitività di un sistema territoriale e la sua capacità di produrre varietà e crescita sostenibile.
Per comprendere il significato e il peso che le aziende agricole “etniche” assumono nel tessuto economico e nelle dinamiche di integrazione degli immigrati stessi, non è sufficiente soffermarsi all’analisi della presenza degli imprenditori stranieri nel Paese, ma è necessario approfondire i processi di territorializzazione che queste attività innescano.
Le capacità creative dei migranti nella costruzione materiale e immateriale del paesaggio, forniscono l’opportunità di creare le condizioni per garantire a questa componente della popolazione un pieno protagonismo, in modo tale che i migranti non siano solo una presenza “nel” paesaggio con una operatività che viene marginalizzata e occultata oppure sovraesposta e stigmatizzata nel discorso pubblico e nelle rappresentazioni sociali, ma una componente capace di esprimere le proprie visioni del paesaggio, di autorappresentarsi in esso, di contribuire alla sua costruzione socio-culturale. Porre attenzione alle colture e alle nuove filiere agro-alimentari costituitesi, permetterebbe di indagare le trasformazioni, ancora poco percettibili, che il territorio sta registrando e che caratterizzano il futuro paesaggio agricolo dell’Italia, aprendo nuovi ambiti di ricerca geografici.
Per una lettura completa del contributo si faccia riferimento al volume “AgriCulture, Tutela e valorizzazione del patrimonio rurale nel Lazio” a cura di Sara Carallo e Giorgia De Pasquale
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