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Se NATURE premia la ricerca sulle foreste

Ricercatore di Scienze Forestali impegnato all’Università Statale di Milano, Giorgio Vacchiano è assurto agli allori della cronaca qualche settimana fa, quando la rivista Nature l’ha inserito tra gli 11 scienziati emergenti al mondo.
Un riconoscimento che rende merito alla qualità di un ricercatore italiano, ma che – vera novità – porta la scienza applicata ai sistemi forestali al centro dell’attenzione generale.

Come hai scoperto di essere stato inserito in questa top11?
È stata una sorpresa. Ne sono rimasto all’oscuro fino a quando ho ricevuto la telefonata della redazione di Nature, perché è stata una iniziativa partita direttamente da loro.
Per selezionare i ricercatori finalisti hanno validato 500 profili che avevano almeno una pubblicazione negli ultimi due anni nelle riviste scientifiche di eccellenza. Poi, la top 11 è stata stilata valutando chi fra questi ha un trend di produzione scientifica “in crescita” per citazioni e numero di pubblicazioni, che rete di collaborazioni si è sviluppata e che impatto hanno avuto le proprie ricerche sui social e sui media.

È abbastanza inusuale vedere uno “scienziato dei boschi” tra coloro che studiano materie come la medicina e le scienze della vita.
Sì, è un caso un po’ anomalo, ma rispetto al loro intento ha una ragionevolezza: stavano cercando ricercatori il cui àmbito di lavoro avesse effetti decisivi per il futuro del Pianeta e della specie umana.
Chi è addentro a questi temi sa bene quanti usi e funzioni abbiano le foreste, quale impatto abbiano sulla protezione del territorio, ci proteggono dalle valanghe e dal dissesto idrogeologico, quanto siano importanti per i cambiamenti climatici grazie alla loro capacità di assorbimento del carbonio, ecc.
E infatti, la redazione di Nature ha attribuito questo riconoscimento alle le ricerche in selvicoltura, ossia la gestione forestale, non la mera ecologia.

Per una strana coincidenza si è parlato molto di foreste, subito dopo il riconoscimento che ti è stato assegnato.
È vero, il passaggio della tempesta Vaia è stata una drammatica coincidenza che ha portato i media mainstream a parlare di foreste e cambiamenti climatici, ossia proprio l’argomento di cui mi occupo.
La tempesta ha interessato solo l’1-2% delle foreste in Trentino ma ha colpito boschi molto conosciuti e ciò ha creato l’impatto emotivo che abbiamo visto. Quello che dobbiamo ricordarci, però è che i tempi del bosco sono diversi da quelli dell’uomo: le foreste, in un modo o nell’altro, ritorneranno, semplicemente nell’arco di vita di un uomo non potremo riammirarle così com’erano appena due mesi fa.
Quello che dobbiamo fare – come tecnici forestali – è imparare dall’esperienza per interpretare le dinamiche della ricostituzione forestale apprendere dove e come intervenire. Già in passato abbiamo assistito a eventi devastanti come l’uragano Lothar e il Vivian che hanno fatto scuola e ci hanno lasciato importanti insegnamenti, da cui oggi possiamo partire.


Nel dicembre 1999, l’uragano Lothar causò immensi danni alle foreste tra Francia settentrionale, Svizzera, Germania meridionale e Austria.

Nel febbraio 1990, in Germania si abbattè la tempesta denominata Vivian

Simulazione con il modello WRF dell’evoluzione della velocità del vento durante la tempesta Vivian nella regione alpina per 6 giorni.

Ci chiarisci meglio qual è il tuo ambito di ricerca?
Studio il legame che c’è tra foreste e cambiamento climatico, per capire la risposta che gli ecosistemi stanno dando alle variazioni climatiche e studiare diverse modalità di gestione.
Nello specifico seguo con particolare attenzione le foreste delle Alpi occidentali.
Nelle mie ricerche applico modelli matematici, che ho adattato alle caratteristiche delle foreste oggetto di studio, per predire gli effetti del climate change e dei periodi siccitosi sul bosco: per esempio sulla frequenza e vastità degli schianti, sulla frequenza degli incendi, sulla biodiversità, sullo sviluppo della biomassa e così via.
L’obiettivo finale è capire come queste variabili possano influenzare le funzioni del bosco e come possiamo adattare di conseguenza la sua gestione.

Studi anche gli impatti sulla biodiversità?
In una ricerca che ho realizzato qualche anno fa insieme a colleghi del Dipartimento di Scienze della vita e biologia dei sistemi dell’Università di Torino, abbiamo analizzato lo sviluppo del Carabus olympiae Sella , un raro coleottero del faggio endemico della Valsessera in Piemonte considerato vulnerabile nella lista rossa IUCN.
La premessa dello studio è stata che il bosco di faggio era tradizionalmente spesso utilizzato per il taglio a ceduo, ma che l’abbandono della montagna aveva creato ampie zone di bosco che per decenni non era più stato tagliato superando di molti anni il turno consuetudinario.
La mia ricerca è iniziata per capire quale potrebbe essere la migliore gestione di questi cedui invecchiati per salvaguardare il coleottero: sviluppo a evoluzione libera o avviamento a fustaia?
La risposta conclusiva a cui giunse lo studio, come spesso accade, è stata complessa. Un bosco chiuso, senza zone aperte è un ambiente meno favorevole per il coleottero, poiché è un predatore di piccoli invertebrati, come chiocciole e limacce che necessitano di una copertura erbacea sviluppata.
La condizione ideale per la salvaguardia di quel raro endemismo è un bosco di faggio, gestito in modo da garantire il mantenimento di radure (ad esempio tramite una conversione a gruppi).

Qui hai messo in relazione due diversi obiettivi, economico e conservazionistico, che un piano di gestione può avere. Ci puoi raccontare gli studi sugli impatti dei cambiamenti climatici?
Qualche anno fa ho pubblicato una ricerca insieme a ricercatori svizzeri e francesi che ha analizzato l’impatto dei periodi di siccità sui boschi alpini occidentali, siccità che sono e saranno sempre più frequenti.
Eravamo partiti da un dato: dal 2005 in poi si sono verificati numerosi casi di disseccamento e altri casi di deperimento dei boschi, soprattutto quelli nelle vallate interne della Alpi. Ci siamo chiesti se la causa delle morie fosse effettivamente da attribuire ai prolungati periodi di siccità oppure se ci fossero altre cause.
La conclusione è stata che le siccità incidevano in modi diversi sui disseccamenti: talvolta la causa della morte era dovuta alla crisi idrica, più spesso invece il legame era indiretto, cioè causava l’indebolimento delle piante che diventano meno resistenti all’attacco di malattie e parassiti.

Da questa ricerca, però, ne sono uscite anche delle soluzioni per curare il bosco…
Validata la responsabilità, o la corresponsabilità, dei periodi siccitosi la domanda successiva è stata: cosa possiamo fare per mitigare il danno?
Ne è risultato un manuale d’uso pensato per i tecnici forestali in cui si spiega che, in alcuni casi, il diradamento per ridurre la competizione per l’acqua può essere una soluzione.
Non è però una soluzione universale, altre volte ha maggior efficacia lo sviluppo di boschi misti. Un’altra soluzione è favorire la roverella come specie sostitutiva nelle foreste naturali, avvantaggiandosi del fatto che, grazie ai cambiamenti climatici sta attecchendo a quote sempre maggiori.
Com’è ovvio, non esistono ricette universali e le soluzioni devono sempre essere declinate sulle singole situazioni. Ciò che voglio dire è che studiando i cambiamenti climatici e i loro effetti possiamo individuare sia le problematicità, che trovare le soluzioni gestionali efficaci.

Infine, c’è il tuo studio più rilevante, quello pubblicato su Nature Climate Change …
In quello studio abbiamo revisionato 600 pubblicazioni che trattavano l’impatto dei cambiamenti climatici su diversi aspetti delle foreste: i danni provocati dal vento, gli incendi, il proliferare di parassiti e patologie, ecc.
Riprendendo in mano le molte pubblicazioni, abbiamo potuto rianalizzare le loro conclusioni sia guardando al passato sia rivolgendoci al futuro per verificare se e quanto fossero accurate e come utilizzarle per capire l’influenza del cambiamento climatico in atto sulle foreste come le conosciamo.

Che risposta ne è uscita?
I cambiamenti climatici impattano pesantemente sulle foreste come le conosciamo e le abbiamo conosciute fino a oggi.
Per esempio, unendo tutti gli scenari di climate change disponibili, abbiamo calcolato che gli schianti da vento potrebbero aumentare in media del 50%, ma fino a oltre il 300% in alcuni casi, rispetto a quanto accadrebbe in un clima simile a quello di oggi.
Da queste conclusioni ho sviluppato il filone di ricerca su cui sto lavorando: come possiamo gestire le foreste per renderle più adattabili, resistenti e resilienti?

Ci puoi dare qualche anticipazione?
Stiamo concludendo uno studio sull’efficacia del diradamento come soluzione per i periodi di siccità. Anche in questo caso i dati che abbiamo confermano che può essere una soluzione in determinati casi, ma non è una risposta universale. I risultati possono cambiare molto se analizziamo un bosco misto o meno, a seconda della zona in cui si sta operando, ecc.

Una domanda di attualità politica. Cosa pensi del TUFF ?
È un testo che inquadra la materia in modo che condivido, ossia chiede di imparare a gestire la foresta, ma non impone il tipo di gestione da fare, decisione che è di competenza regionale.
Purtroppo, la discussione si è polarizzata e i diversi portatori di interessi hanno sostenuto la propria tesi talvolta con pregiudizio, talvolta senza una visione d’insieme.
Invece propone un approccio consapevole delle diverse funzioni che svolge il bosco e dell’importanza di avere un approccio quanto più possibile organico, che sappia potenziare i servizi del bosco senza compromettere l’equilibrio.
A mio giudizio, questo approccio dovrebbe dare il giusto inquadramento alla fase di programmazione e di pianificazione forestale.

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